Una primula non bastaL’Italia ha un problema di comunicazione, e la campagna per la vaccinazione ne è la prova

Un evento importante come il piano per immunizzare i cittadini ha bisogno di una narrazione seria che sappia bilanciare informazione e rispetto. Quella di Domenico Arcuri si è invece rivelata debole: ha fatto troppo ricorso alla figura del testimonial, non coinvolgendo il tessuto sociale delle città. Però questa difficoltà riflette quella del Paese, perché le aziende del settore faticano a produrre idee nuove e innovative

Stefano Boeri

Per molti anni la politica italiana è stata criticata di occuparsi troppo della dimensione comunicativa e poco di quella del fare o del progettare a lungo termine. Comunicando continuamente, spesso anche il niente, ci potevamo aspettare che i nostri politici fossero diventati abilissimi nell’utilizzare la retorica, i tempi e i modi per la diffusione di informazioni e valori, azioni e intenzioni. Purtroppo non è così. Anzi, quando finalmente c’è qualcosa di grande e importante da poter dire, quando cioè la comunicazione può finalmente creare coesione e senso d’appartenenza, informare per ricostruire la fiducia, ci rendiamo conto della totale incapacità nel trasmettere messaggi e fare una campagna di comunicazione come si deve.

Purtroppo però non è solo un problema della politica: è tutto il comparto della comunicazione, a partire da quella pubblicitaria, a offrirci il peggio in questa faticosa ripresa – ma di questo ne parliamo più avanti, torniamo invece al discorso principale. L’occasione ce la sta offrendo in questi giorni l’inizio della campagna per la vaccinazione, evento fondamentale che ha bisogno di una narrazione seria che sappia bilanciare informazione e rispetto, coinvolgimento e responsabilità, riconoscimento e risonanza, tutti valori fondanti della nuova comunicazione che passa anche attraverso i media digitali.

«Faremo una campagna di comunicazione emozionante per persuadere gli italiani. Parteciperanno registi, direttori d’orchestra, letterati»: in questa infelice frase pronunciata dal commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri c’è tutta l’inadeguatezza dell’approccio comunicativo. Innanzitutto, emozione e persuasione non possono essere gli unici elementi di una comunicazione di questo tipo: ci sarebbe bisogno invece di un approccio maturo, razionale e informativo. E poi c’è la storia dei testimonial.

Sorvoliamo sulla scelta delle categorie – i direttori d’orchestra nel meraviglioso mondo di Arcuri rappresenterebbero il simbolo dell’autorevolezza e della competenza, per non parlare dei letterati, termine che non si usa più dai primi dell’800 – ma il problema vero e atavico della comunicazione è il continuo e forsennato ricorso al testimonial: mezzuccio figlio del Carosello, rapido e facile da progettare che nella visione di alcuni catturerebbe l’attenzione del pubblico-consumatore per far scattare il meccanismo della fiducia e della “continuità emotiva” (mi piace il testimonial, al testimonial piace quel prodotto, quindi a me piace quel prodotto), basandosi semplicemente su quella che oggi viene chiamata una photo-opportunity.

Nel tempo e altrove la figura del testimonial è stata sostituita da quella più complessa e articolata dell’ambassador, che potenzialmente è più coinvolto nell’operazione di comunicazione, o quella più puntuale ed esperta dell’endorser. Il testimonial è la soluzione più semplice e quindi anche più rischiosa, perché qualsiasi notizia che screditi la celebrity in questione, rimbalza sui social network con il rischio di un danno all’intera campagna.

Peraltro tutta l’operazione della campagna di vaccinazione (quella della “Primula” per intenderci) non è stata affidata a un’agenzia di comunicazione o di eventi, bensì a uno studio di architettura (quello di Stefano Boeri). Sull’efficacia dell’operazione Primula è ancora presto per parlare, tuttavia in rete c’è un’animata discussione critica sulle modalità – senza una regolare gara, ma si sa, siamo “in emergenza” – ma sopratutto sulla bassa sostenibilità ed eticità dell’operazione.

Invece di costruire nuove tensostrutture e partire tutto da zero, forse sarebbe stato opportuno, almeno in un primo momento, utilizzare i molti spazi vuoti disponibili e a norma – teatri, cinema, fiere, palazzetti – in modo coinvolgente e anche creativo, magari associando alla somministrazione del vaccino anche dei progetti di rinascita culturale, coinvolgendo anche tutte quelle maestranze del mondo degli eventi che in questi mesi non hanno potuto lavorare. Invece ci siamo ritrovati una campagna di comunicazione ideata da un architetto: il logo della Primula non è neanche brutto, con i cuori come petali, però l’occasione era tale che si poteva fare e osare di più.

Tuttavia questa scelta è in parte comprensibile, perché se guardiamo le campagne pubblicitarie di questi ultimi mesi costruite dalle agenzie pubblicitarie italiane, lo sconforto è massimo: i messaggi post-Covid uniti al Natale e alla totale assenza di identità e valori hanno prodotto una melassa sdolcinata priva di qualsiasi guizzo o contenuto creativo, ma fondata su ovvietà e stereotipi che non si vedevano da anni. Insomma sì, abbiamo un grosso problema di comunicazione.

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