Forse ieri è partito il conto alla rovescia della crisi di governo. Più in là. Ora c’è il time out di Natale, peraltro segnato dal nervosismo a causa delle indecisioni sulle norme anti-Covid e della persistente crisi sanitaria. Certo è che l’atteso incontro fra Matteo Renzi e Giuseppe Conte è stato molto modesto: «Ecco le nostre proposte», «Grazie vi farò sapere». Una ventina di minuti. C’era poco da verificare. Alla fine, tutto resta sospeso come nel penultimo capitolo di un romanzo giallo.
Il clima fra Renzi e Conte infatti è pessimo ma come sempre in questi casi non c’è stata la svolta ma nemmeno la rottura, come in quei rapporti in cui ormai predomina la diffidenza, qualcosa si è rotto e però si tira avanti; e dunque l’incontro alle sei de la tarde è andato come non poteva non andare: il governo non cade ma il suo futuro è appeso a un filo perché Renzi non ha minimamente diradato le nuvole, anzi l’impressione è che sia iniziata la sua danza della pioggia che a gennaio potrà trasformarsi in diluvio.
Conte, arrivato in ritardo all’appuntamento, non è stato particolarmente reattivo, era anche stanco dopo il viaggio a Bengasi per “salvare” i pescatori di Mazara del Vallo e le defatiganti trattative con le Regioni sul Natale.
La dinamica politico-psicologica è quella vista negli anni tante volte. Forse il modello più calzante è quello del Fausto Bertinotti che nella seconda metà del ‘98 con Prodi a Palazzo Chigi ripeteva ogni giorno come un disco rotto lo slogan «o svolta o rottura», e rottura fu.
Anche Renzi oggi sta seduto al tavolo alzando continuamente la posta, come si è visto con la lettera al presidente del Consiglio nella quale ha messo sul piatto non più questa o quella questione ma un’insieme di critiche e proposte che la rendono molto simile a una mozione di sfiducia: se oggi Conte incassa e promette, resta molto difficile che egli possa dare reale soddisfazione all’alleato di Italia viva. La medicina del rimpasto stavolta non pare adatta allo scopo.
Renzi ha dunque cambiato marcia. Fino a una settimana fa poneva essenzialmente una questione: «Se il premier tornerà indietro su tecnostrutture sostitutive al Parlamento e la bozza sul Recovery sarà riscritta, noi ci siamo e l’esecutivo ne uscirà rafforzato», aveva sintetizzato Gennaro Milgliore.
Poi si era aggiunta quella del controllo sulla cybersicurezza che Conte aveva assegnato a sé medesimo con una scelta che non era piaciuta nemmeno al Partito democratico, tradizionalmente attentissimo a questo aspetto e convinto di poter ottenere quella delega.
Sulla prima questione Conte aveva mollato subito, cestinando la famigerata bozza del Piano per il NextGenerationEu, ma anche sui servizi non si era chiuso a riccio. È stato a quel punto, constatando anche che Nicola Zingaretti si era defilato, molto irritato per la pepata intervista di Renzi al Pais, che l’ex premier ha puntato forte.
Ritirando fuori la questione dei 37 miliardi del Mes, spina nel fianco di un Conte su questo prono al Movimento cinque stelle, e ritrovando sul punto una sintonia con i dem che a loro volta non sono affatto dispiaciuti se qualcuno riuscisse a smuovere Conte dal suo andreottismo paternalista ma spregiudicato (è soprattutto Andrea Orlando a dare l’impressione di mordere il freno).
È possibile che il presidente del Consiglio sia convinto che Renzi alla fine abbaia ma non morde per la buona ragione che non è chiaro a nessuno cosa mediti l’ex premier fiorentino. Ma è chiaro che quella che si sta consumando è una rottura anche personale con l’uomo che proprio Renzi imbullonò a Palazzo Chigi dopo il Papeete, quel Giuseppe Conte che per il capo di Italia viva è da rimuovere, si vedrà chi mettere al suo posto, tanto le urne non le vuole nessuno… Renzi rimugina su una nuova fase, come al solito a lui piace costruire e distruggere. Ma l’impressione è che in questa nuova situazione l’avvocato più che “il popolo” sia costretto a difendere se stesso. Almeno fino a gennaio.