Il testa a testa tra Stati Uniti e Cina per il ruolo di prima superpotenza mondiale si deciderà nel prossimo decennio. È la tesi di un articolo pubblicato su Foreign Affairs, con la doppia firma di Michael Beckley e Hal Brands.
La prospettiva da cui gli autori descrivono il confronto tra i due Paesi è quella di Washington. Ma il punto di partenza delle loro argomentazioni è in Cina: Pechino è in una fase particolare della sua ascesa, è diventata abbastanza forte da rompere l’equilibrio esistente in diverse aree del mondo, «vanta la più grande economia del mondo in termini potere d’acquisto, ha riserve finanziarie, la più grande marina per numero di navi e sta spingendo per il primato in tecnologie strategiche come le telecomunicazioni 5G e l’intelligenza artificiale», si legge nell’articolo.
Allo stesso tempo, però, la superpotenza asiatica sta già contemplando un rallentamento della crescita e un aumento delle ostilità di molti Paesi: fattori che, proprio come accadde all’Unione Sovietica negli anni precedenti al crollo, potrebbero restringere la sua finestra temporale per vincere la sfida con gli Stati Uniti.
«Dal 2007 – scrivono gli autori – il tasso di crescita economica annuale è diminuito di più del 50 per cento e la produttività è diminuita del 10 per cento, mentre il debito è aumentato di otto volte. La Cina ha poche speranze di invertire queste tendenze, perché perderà 200 milioni di adulti in età lavorativa e guadagnerà 300 milioni di anziani nei prossimi 30 anni. E mentre la crescita economica diminuisce, il sentimento globale anticinese è salito a livelli mai visti dal massacro di piazza Tienanmen del 1989. Una dozzina di Paesi hanno sospeso o annullato la partecipazione ai progetti della Nuova via della seta, altri 16 hanno vietato o fortemente limitato l’uso dei prodotti Huawei nelle loro reti 5G. India, Giappone e Unione Europea vedono l’ascesa cinese come una potenziale minaccia».
La storia contemporanea, soprattutto l’ultimo secolo, insegna che i tentativi più disperati di cambiare lo status quo dello scacchiere mondiale sono arrivati da potenze che, sebbene fossero in ascesa, erano preoccupate che il loro tempo stesse per scadere. Proprio come la Cina.
Beckley e Brands fanno alcuni esempi. Il primo e più significativo risale alla Prima Guerra Mondiale: «La Germania era in grande crescita, ma i timori tedeschi di un possibile declino hanno innescato le decisioni finali che hanno portato alla guerra: sul fianco orientale cresceva il potere militare della Russia; sul fianco occidentale c’era la Francia; e un’intesa franco-russo-britannica sempre più serrata circondava la Germania. I leader tedeschi avevano paura che se non avessero agito rapidamente e in maniera drastica avrebbero perso ogni influenza geopolitica».
Dal momento che la Cina sta attualmente affrontando sia una prospettiva economica negativa che un inasprimento dell’accerchiamento strategico, i prossimi anni potrebbero rivelarsi particolarmente turbolenti. Ma per cogliere l’attimo gli Stati Uniti hanno bisogno di una strategia che guardi sia al lungo termine sia al contenimento di una potenziale politica espansionistica aggressiva cinese – sempre più probabile – in questo decennio.
Questo doppio approccio crea un parallelismo con i primi anni della Guerra Fredda: «A quel tempo – si legge – i leader americani capirono che per vincere la lotta a lungo termine contro l’Unione Sovietica non avrebbero dovuto perdere le battaglie cruciali a breve termine. Il Piano Marshall, presentato nel 1947, aveva lo scopo di prevenire il collasso economico dell’Europa occidentale, che avrebbe permesso a Mosca di estendere la sua egemonia politica su tutto il continente. La creazione della Nato e il riarmo durante la guerra di Corea hanno forgiato uno scudo militare che ha permesso all’Occidente di prosperare. Insomma, gli Stati Uniti potevano sfruttare il loro vantaggio economico e politico sul lungo periodo solo se avessero risolto le incombenze più immediate».
Una strategia di questo tipo, traslata sullo scenario attuale, non può prescindere dall’ostruzione verso i progetti a breve termine della Cina, si legge su Foreign Affairs. Si tratta di togliere a Pechino quelle mosse che, se andassero a buon fine, altererebbero radicalmente l’equilibrio del potere sul lungo periodo: i due dossier principali sono Taiwan e il 5G.
Il primo obiettivo degli Stati Uniti è impedire che la Cina riesca ad addomesticare Taiwan: negli anni l’isola ha sempre opposto una grande resistenza per mantenere la sua indipendenza, così adesso Pechino potrebbe prendere in considerazione l’opzione militare. «Negli ultimi tre mesi – si legge nell’articolo – i pattugliamenti aerei e navali sono diventati una vera e propria dimostrazione di forza nello Stretto di Taiwan. Un’invasione o una campagna coercitiva potrebbe non essere imminente, ma di sicuro è sempre più probabile. Washington dovrebbe schierare orde di lanciamissili e droni armati vicino e possibilmente su Taiwan in funzione anticinese».
Quest’ultima è solo una delle opzioni sul tavolo per gli Stati Uniti sul dossier taiwanese, che va di pari passo con quello dell’influenza tecnologica.
«Se le aziende cinesi installeranno reti di telecomunicazioni 5G in tutto il mondo la Cina avrà enormi vantaggi in termini di intelligence, ritorni economici e una nuova leva strategica. Ma è anche vero che la via della seta digitale di Pechino rimane popolare laddove la democrazia è meno consolidata. Per controllare l’espansione tecnologica della Cina, Washington dovrebbe limitare l’esportazione di tecnologie prodotte negli Stati Uniti e in altre democrazie da cui dipende la tecnologia cinese, così da ritardare il progresso tecnologico di Pechino e guadagnare tempo per offrire ai Paesi in via di sviluppo alternative alle reti cinesi», scrivono Beckley e Brands.
Ma questi due impegni a breve termine da soli non basteranno. La strategia americana va implementata con altri due principi chiave. Gli Stati Uniti devono individuare gli strumenti e le partnership disponibili nell’immediato o nel prossimo futuro, senza perdere tempo nello sviluppo di risorse che richiedono anni per poter dare i loro frutti. Il terzo e ultimo principio cardine è capire come logorare il potere cinese, un’azione preferibile rispetto al tentativo di cambiare il comportamento del governo di Pechino: alla luce del restringimento della finestra temporale per vincere la battaglia di lungo periodo, la Cina potrebbe essere più determinata che mai nel mantenere un atteggiamento aggressivo.
Adesso però gli Stati Uniti stanno cambiando i loro vertici politici. Di solito un’amministrazione impiega un po’ di tempo per impostare le sue tattiche politiche e pianificare iniziative.
Non è escluso che – alla luce delle divisioni interne politiche e sociali – l’amministrazione di Joe Biden possa essere tentata di guardare prima di tutto a consolidare il funzionamento della propria democrazia, dell’economia e la sanità pubblica.
«Ma per quanto importanti siano questi compiti – conclude l’articolo di Foreign Affairs – Washington avrebbe la possibilità di eliminare la prospettiva di una guerra sino-americana se dimostrasse da subito che Pechino non può ribaltare con la forza l’ordine mondiale».