Chissà cos’è successo un giorno nella testa di Taylor Swift, quando ha voluto trasformarsi da hit machine di un pop cosí mainstream da essere esangue, in capricciosa e altera principessa dell’ultimo indie sound – ormai ricca e potente al punto da attirare subito a sé i migliori nomi in circolazione e il turbamento di certi media che fino ad allora l’avevano snobbata.
Probabile che abbia provato un sollievo senza precedenti, perché quella che stava assaporando era davvero l’aria della libertà. E deve aver avuto un eccitante brivido di piacere, a sentirsi finalmente inter pares tra coloro che vendono meno ma contano di più, se è vero che uno come Justin Vernon, santo-martire del suono “intelligente”, s’è premurato di far sapere che si sente onoratissimo d’aver stabilito duratura collaborazione con lei, proprio la Taylor che fu la stella glossy dell’entertainment Usa d’oggi.
Una collaborazione, la loro, che continua a fiorire, se a soli sei mesi da “Folklore”, l’album della conversione della Swift da diva ad artista, i due ora si riaffacciano insieme alla stessa compagnia cantante – Jack Antonoff, produttore e collaboratore di vecchia data, Aaron Dessner dei National, nonché il fidanzato di Taylor, l’attore inglese Joe Alwyn.
Due dischi così ravvicinati sono un palese sberleffo alle regole di programmazione delle major e un nuovo ammiccamento allo spirito della purezza a cui Taylor sembra devolvere questa fase della sua carriera – il momento, in sostanza, in cui sente di avere la forza e la fede per fare ciò che vuole e in cui crede.
Come, ad esempio, ripetere quel che le è piaciuto fare di recente, o meglio, detto con parole sue, «scavare in profondità, anziché inoltrarmi più avanti nella foresta». Il tutto, alla fine diventa un disco che raddoppia, almeno quantitativamente, il precedente, intitolato “Evermore”, “per sempre”, e sulla cui copertina Taylor ha il vezzo di mostrarsi di spalle, con caste treccine e un cappottone a scacchi maledettamente Greenwich Village.
A questo punto due sono le strade che si possono imboccare per proseguire a parlarne: sorvolare sul disco e dedicarsi a contemplare il fenomeno, divertendosi a vivisezionare questa mutazione così compunta, giocando con l’idea che sia tutta una reinvenzione pilotata per far cambiare morbidamente pelle a un’artista che ha sempre convinto i fan a seguirla in ogni dove. E, seguendo il filo di questo ragionamento, osservare che il territorio nel quale Taylor ha deciso di mettere le tende, quello di un post-rock con pretese letterarie e gusto delle contaminazioni, non è così derelitto come sembrava, insomma che non è solo una riserva indiana i cui confini coincidono più o meno con le zone hipster di Brooklyn, ma invece è un cavallo di ritorno perché, in buona sostanza, a un suono del genere gli studenti americani (o chi lo è stato) non sapranno mai rinunciare.
Taylor, insomma, può dare una dolce spallata a Fiona Apple e alle altre regular di queste onde musicali e nel giro di due o tre album diventarne l’ago della bilancia – perché lei non è mica Britney Spears, lei è una ragazza con ambizioni che vanno oltre l’essere la perenne preferita della fetta più rassicurante d’una nazione.
In alternativa a questo bagno di cinismo, si può invece ascoltare con orecchio magnanimo “Evermore”, disco di variazioni e di sfumature, anche nei momenti migliori meno smagliante di “Folklore”, eppure ricco di piacevolezze e implicazioni. Del resto l’ensemble che segue la Swift è fatto da gente competente e che ora, si direbbe, ha capito ancor meglio la suddivisione dei ruoli: loro sono la cornice, il resto è lei.
Perché la voce di Taylor in questo disco è ovunque, non si tacita mai, gorgheggia, modula, sussurra senza posa e, non contenta, si doppia, si contrappunta, si fa domande e si dà risposte. Del resto lei ha gli assi da giocare, perché sa cantare bene, sa sedurre coi timbri, sa dare letteratura e cinema alla propria voce, farla diventare suggestivamente “narrante”, perché i grandi indipendenti della canzone americana, da Dylan a Cohen, da Cobain a Young a Joni, sono sempre maestri affabulatori, che ci stendono non solo coi ghirigori dei loro motivi, ma con le storie che ci dicono, manco che Fitzgerald e Carver fossero passati invano.
Ecco allora la murder ballad “No Body, No Crime” (ospiti le sorelle Haim, in un sound che più Rem non si può), ecco la fantastica ballata “Dorothea” in cui si parla di una stella di Hollywood che torna al paesello e ritrova l’amore del liceo, ecco una galleria di figure, preferibilmente femminili, che si chiamano Rebecca o Betty, ecco le più disparate prospettive amorose – lei che lascia lui quando sta per chiederle di sposarlo, altri due che sprofondano nella più glaciale indifferenza, o il miglior brano dell’album, dedicato a una “Marjorie” che spinge Taylor a un’esecuzione sbalorditiva per concentrazione e nuances. Swift del resto non si nasconde più: dice di volersi dedicare, adesso che è una signora di 31 anni, al “fiction songwriting” e sotto queste insegne di voler tornare addirittura a reincidere i vecchi dischi, stavolta mantenendone il totale controllo, facendoli come dice lei, mettendoci le cose che appropriate.
A questo punto come metterla con Taylor Swift? Direi con educato rispetto per ciò che fa e la qualità che sa esprimere. Ma riducendo la storia a una questione di pelle. Insomma se lei, con quel vagone di assertività che da sempre si trascina dietro, con quella mania per la perfezione, vi piace, nel senso che avete davvero voglia di capire dove voglia condurvi, “Evermore” è un regalo di Natale e un pilone su cui erigere la sua cattedrale.
Se invece restate scettici sul progetto, inclusa la mansueta disponibilità di bellimbusti da cui ci sentiamo di pretendere di più, questo resta un dischetto ben fatto, ma calligrafico, pesantemente autoreferenziale, corto a ironia, palesemente partorito nel tempo delle videoconferenze e delle distanze. Che, non c’è niente da fare, ma cominciano a tirar fuori da tutti noi i più lati deboli, che – in questo mostrarci “coreografati” – spesso parlano di chi avremmo voluto ma, purtroppo, non ci è mai riuscito di essere. Per un pelo, eh, per un’incollatura. Ma che è quella che ha sempre distinto, chessò, Freddie Mercury da Adam Lambert. O Johnny Winter da suo fratello, Edgar.