1. Ho visto anche dei #veganuary felici
Gennaio, mese di penitenza: del Dry January abbiamo già detto, inoltre spopola la #52weekchallenge per imparare a risparmiare e va forte anche il veganuary – insomma mangiare vegano per tutto il mese. Di per sé è una bella idea: normalizza la dieta vegana (che suscita reazioni scomposte, ma è invece molto sana integrando la vitamina B12, ha un basso impatto ambientale e non comporta lo sfruttamento degli animali) e, con il pretesto della “challenge”, insegna a mangiare più verdure e a campare senza proteine animali. Siccome però in Italia i vegani vengono ancora considerati degli eccentrici – non aiuta il fatto che il volto più noto tra i vegani italiani sia quell’esempio di buon senso e misura di Red Ronnie – sullo stampa il Veganuary tende a essere presentato come una bizzarria, anche quando il tono è di generale benevolenza: o come tendenza da celebrity (“Impazza la Veganuary: stop alle proteine animali per 31 giorni. La dieta delle star”, questo è Il Giornale), oppure – che è peggio – con un’insistenza sul “detox”. Prendiamo questa combo titolo-occhiello del Corriere: “La dieta vegana per rimettersi in forma: verdure, tante e in tutti i modi; poca frutta e centrifughe al minimo. Poi tisane e proteine vegetali”. Poca frutta nella dieta vegana? Tisane?
Su Instagram, raccomando il medico nutrizionista Silvia Goggi, per capirne un po’ di più.
2. Veganuary /2:
Anche io ho provato a santificare il Veganuary: dato che a casa mangio già a tendenza vegana – se non contiamo il Parmigiano grattugiato sulla pasta e le acciughe, l’ingrediente più interessante per apportare sale a un piatto – non è difficile tranne che a colazione, rito su cui fa perno la mia salute mentale. Anni fa avevo provato un po’ di latti vegetali diversi – soia, avena, mandorla – trovandoli terribili e del tutto inadatti al cappuccino, ma di recente molti produttori hanno lanciato linee “barista” con latti vegetali che dovrebbero montare adeguatamente. Ne ho comprato uno con una grafica bellissima che mi pareva molto promettente: non ha montato, e mi ha lasciato l’orribile patina d’unto sulla lingua. Se tu che leggi hai consigli in merito, fatti sentire.
3. San Valentino/1
Io rispetto il dominio nella cultura popolare dei Baci Perugina e il ruolo che ricoprono a San Valentino: è il loro momento, come Halloween per Jack Skeletron in “Nightmare before Christmas”. Ci tengo a informarvi dunque che quest’anno ci sarà una limited edition con cartigli scritti da Elodie e dai Pinguini Tattici Nucleari. Ecco alcune delle 30 frasi inedite: “T’ho amata da subito. Tu c’hai messo un po’. Per me è stato un colpo di fulmine, per te un colpo di tuono”; “In un mare di strofe sei il mio ritornello”; “Il nostro amore è nato leggendo tra le righe e finirà ridendo tra le rughe.” Bravi! È importante mantenere una coerenza di tono anche quando si innova, non è facile modernizzare mantenendo gli stessi livelli di cringe.
P.S Sì posso dire “cringe”, ne ha parlato anche l’accademia della crusca. Se vi serve un sinonimo da boomer, si dice fremdschämen.
P.P.S. Comunque li compro!
4. San Valentino/2
Considerate questa come la vostra autorizzazione a preparare a San Valentino il tortino di cioccolato con il cuore caldo. Esso non ha colpa: prima di diventare un preparato in busta, fu una geniale creazione dello chef autodidatta francese Michel Bras, che voleva ricostruire in un dolce l’emozione di una cioccolata calda bevuta dopo una giornata trascorsa sugli sci, infreddolito fino al midollo.
5. In tivù: “Fran Lebovitz: una vita a New York”
Su Netflix è uscito da pochi giorni un documentario di Martin Scorsese sull’autrice americana Fran Lebowitz, che contiene una serie di one-liner memorabili che citerò fino alla nausea. C’è per esempio la risposta definitiva all’eterno dibattito sul cibo come forma d’arte: “Se si mangia, non è arte. Se puoi dire: prendo quello e una tazza di caffè, allora non è arte”.
6. Un ristorante (sognando la zona bianca): Sumire, a Milano
Sto per dire una cosa per la quale quand’ero più giovane e primitiva mi sarei presa da sola a schiaffi: non riesco più a mangiare sushi mediocre (sì, è da quando sono stata in Giappone. Non so cosa dire per giustificarmi). Perciò non lo mangio quasi mai, perché il sushi buono è troppo costoso per me – che parabola tragica la mia. In ogni caso, da ottobre a quest’oggi Milano è stata in zona gialla, con i ristoranti aperti almeno a pranzo, per un totale di – mi pare – cinque giorni, e nell’ultimo di questi io e il mio compagno siamo andati a pranzo da Sumire, ottimo localino giapponese in zona Moscova, per passare un po’ di tempo di qualità in coppia, senza nostra figlia. Abbiamo mangiato dell’ottimo sushi e bevuto quantità smodate di sake, parlando del nostro imminente matrimonio e degli incubi ricorrenti in cui sogniamo di morire (purtroppo dopo un anno di pandemia abbiamo perso la mano con gli appuntamenti galanti).
7. La playlist Barilla con le compilation dai minuti contati
Da quando è salito al potere il “Movimento Grandi Minuti” – campagna nata sui social che chiedeva ai brand di pasta di scrivere il minutaggio di cottura in caratteri grandi e facilmente leggibili sui pacchi, di cui abbiamo parlato anche su Gastronomika – sembra che le sue rivendicazioni di semplificazione non abbiano fine. Barilla se n’è uscita con un’idea molto carina: in collaborazione con Spotify, ha lanciato le “Playlist Timer”: raccolte musicali la cui durata corrisponde al tempo di cottura dei formati di pasta più amati. 8 playlist create abbinando i 4 generi musicali più ascoltati in Italia (pop, hip hop, indie e grandi classici del passato) ad alcuni tra i formati di pasta più apprezzati dagli italiani (spaghetti, linguine, fusilli e penne rigate).
Se siete giù di morale perché state facendo il Dry January combinato al Veganuary in versione detox e nel frattempo avete ancora strascichi del Blue Monday dell’altro ieri vi raccomando “pleasant melancholy penne”.
8. Zie del delivery
Quando poco più di un anno fa a Gaggiano ha chiuso il rimpianto Ada e Augusto, Takeshi Iwai è diventato chef di Aalto part of IYO, conquistando grazie alla sua cucina nippo-onirica una stella Michelin nel giro di pochi mesi. Maria Giulia Magario, che dopo un passaggio in cucina era diventata responsabile di sala, ha saputo fare di pandemia virtù creando insieme a Silvia Di Stefano – che seleziona i vini – e a Federica Canessa – responsabile della comunicazione – “Le Zie del Delivery” (“Deli.Zie”, capito? Io ci ho messo più di quanto sarebbe ragionevole) con una proposta settimanale perfetta, nativa del delivery: un mini-menu fisso comfort food con qualche twist creativo (gyoza fatti a mano, shanti rice alla piastra) e un prezzo finalmente ragionevole (non ho mai una gran voglia di spendere più di così per mangiare alla mia “scrivania” e dover lavare io i tovaglioli): 30 euro a persona, in 2 è inclusa una bottiglia di vino.
9. Un articolo da leggere: ”Sì, scrivo di cibo e perciò sono qualificato a scrivere di tutto”
Scrivere di cibo viene spesso considerato una branca minore del “vero” giornalismo, con scorno di chi soffre nel vedere la professione ridotta alla caricatura del ghiottone che mangia tortine e scrive di tortine in un ciclo infinito. La questione torna di frequente, ma in questo articolo sul quotidiano inglese The Guardian Jay Rayner la sintetizza brillantemente: «La produzione e la vendita di prodotti alimentari sono ovviamente una parte importante dell’economia in generale (…). Quello che mangiamo (…) ha un effetto diretto sulla nostra salute fisica e mentale: il fatto che abbiamo una dieta sana o meno dipende generalmente dal reddito e dal tipo di lavoro, che paga il genere di salario che consente o meno una dieta bilanciata. Quindi è legittimo che io abbia un’opinione sul nostro sistema sanitario e fiscale». E così via, con un argomento che include il sistema scolastico (e ciò che mangiano i bambini), le emergenze umanitarie (e le carestie), la cultura e la filosofia (perché è grazie al cibo se siamo vivi).
10. Un libro: “Il Grande Libro del pesce” di Josh Niland, edizione Giunti
Il mio libro di cucina preferito di questo inizio d’anno è “The Whole fish cookbook”, che qui da noi Giunti ha tradotto come “Il Grande Libro del Pesce”. A giudicare da quanti libri di cucina si chiamino il grande o il piccolo libro del… suppongo che il titolo funzioni, come nei film americani in stile “Se mi lasci ti cancello” / “se scappi ti sposo”, ma così si perde un po’ del senso originale: parliamo di pesce intero, perché il lavoro di Josh Niland, chef del Saint Peter di Sidney, in Australia, è il frutto di una sperimentazione che dura da anni sulle potenzialità di ogni parte del pesce, inclusi visceri, occhi (con cui Niland realizza nuvolette simili a quelle di gambero del ristorante cinese), pelle e sangue. Non necessariamente il libro per chi vuole solo perfezionare la propria pasta alle vongole, ma una lettura di grande fascino per i veri appassionati.