Le cose vanno dette: il presidente Donald Trump ha attaccato il cuore della democrazia americana, ma la democrazia americana ha resistito alla sfida. Joe Biden entra in carica in gennaio come quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti. Il decoro tornerà alla Casa Bianca: è un determinante mutamento morale. I dittatori sparsi in tutto il mondo non avranno più carta bianca per fare indisturbati del loro peggio.
Biden, con 306 grandi elettori, lo stesso numero ottenuto da Trump nel 2016 quando definì la sua vittoria «un trionfo schiacciante», ha largamente prevalso. Tutte le proteste e le sbruffonerie di Trump non potranno annullare questo dato di fatto. L’oscenità del rifiuto di concedere la vittoria da parte del presidente è percepita in modo attenuato in un Paese assuefatto all’indecenza. Ma, ciò nonostante, mostra la reale entità del tentativo di Trump di sovvertire le istituzioni e le tradizioni democratiche.
Lo sbandamento autoritario in America è stato un pericolo vero. L’Europa si sentiva già sola nella sua difesa della rule of law e dei diritti umani. Quella voce infida, adulatoria, lamentosa che proveniva dalla Studio Ovale, e che trasudava narcisismo, è penetrata nelle teste di tutti. Il genio politico di Trump risiede nella sua sensibilità per il lato oscuro della natura umana e nella sua energia formidabile, a cui fanno da combustibile i social media, nel vellicarlo. Il volume si è abbassato mentre l’incubo sta svanendo. E, di colpo, c’è uno spazio mentale per pensare di nuovo.
Ci sono molte cose alle quali pensare. L’ordine mondiale post 1945, guidato dall’America, è finito: la presidenza Biden non lo riporterà in vita. Con gli Stati Uniti che erano assenti ingiustificati e con un Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite inconcludente, la pandemia ha mostrato un mondo senza leader. Le barriere erette dal virus non saranno smantellate rapidamente. Né scomparirà l’economia basata sul lavoro da remoto, accompagnata dall’impatto psicologico, potenzialmente devastante, della solitudine. Le società occidentali affrontano incessanti sfide al loro modello democratico lanciate da una Cina in crescita, con il suo repressivo Stato di sorveglianza, e dalla Russia del presidente Vladimir Putin, per il quale il liberalismo è obsoleto perché presuppone che «gli immigrati possano uccidere, saccheggiare e stuprare impunemente».
Le migrazioni di massa, gli effetti dirompenti dello sviluppo tecnologico, le difficoltà economiche derivate dal virus e l’assottigliamento della classe media creano le condizioni in cui prosperano il nazionalismo e la ricerca di capri espiatori su cui questo di basa. Queste circostanze continueranno ad alimentare movimenti illiberali come quelli guidati da Trump, da Putin e dal primo ministro ungherese Viktor Orbán. Per le democrazie liberali la sfida fondamentale è riuscire a costruire una risposta che preveda, innanzitutto, opportunità economiche ed educative più inclusive ed equità fiscale. L’impunità per chi è ricco e l’allargamento delle disuguaglianze hanno infranto la “società”, intesa come comunità con ben determinati interessi condivisi.
Negli Stati Uniti, il divario culturale tra le élite urbane e il Paese profondo rimane estremo. I 72 milioni di voti di Trump riflettono qualcosa di più dell’America first che si percuote il petto con i pugni. Barack Obama, in una recente intervista alla rivista Atlantic, ha detto: «Negli Stati Uniti stiamo entrando in una crisi epistemologica». L’ex presidente ha osservato che gli americani stanno perdendo la capacità di distinguere il vero dal falso e, in queste circostanze, la democrazia viene meno.
Ok, ma io ho cercato di immaginare come “crisi epistemologica” sarebbe stato interpretato a Rifle, Colorado, dove ho recentemente fatto un reportage presso lo Shooters Grill, la cui proprietaria è Lauren Boebert, una trentatreenne repubblicana, appartenente alla destra estrema e armata di una Glock, che è appena stata eletta al Congresso.
Tra i liberal e l’altra America che la pensa in modo diverso è collassato perfino il modo stesso di esprimersi. Trump, un impostore di genio, ha visto lo spazio politico che tutto questo apriva davanti a lui. La sua nostalgia è rivolta a un qualche indefinito momento della grandezza americana, in cui i proprietari maschi bianchi comandavano da soli, le donne stavano a casa e il dominio globale degli Stati Uniti era incontrastato. Trump ha avuto successo grazie all’ansia e al senso di umiliazione provocati dai rapidi mutamenti demografici e dalle alterazioni nel panorama economico. È improbabile che lui scompaia. E, se lo facesse, magari in una cella di una prigione, il trumpismo troverebbe qualche altro interprete.
Biden farà alcune cose rapidamente: aderirà nuovamente all’Accordo di Parigi sul climate change; riaffermerà l’importanza dei valori americani, inclusa la difesa della democrazia e dei diritti umani; ricostruirà i vacillanti rapporti con l’Unione europea e gli alleati in tutto il mondo; rimetterà nel suo giusto posto la verità, di modo che la parola dell’America valga di nuovo qualcosa; rifiuterà l’approccio a somma zero di Trump, che non è riuscito a comprendere i reciproci benefici del libero commercio e di un ordine globale basato su regole.
In Medio Oriente, Biden sterzerà lontano dall’acritico supporto verso Israele di Trump, per dirigersi verso un più equilibrato approccio dell’America riguardo al conflitto con i palestinesi e cercherà una strada per rianimare l’accordo sul nucleare con l’Iran. Restituirà un metodo alla politica americana. Anzi, ripristinerà la politica, al posto della pancia e degli impulsi istintivi che sono stati il modus operandi di Trump, in particolare nel caso della sua caotica reazione alla pandemia.
Questa ristrutturazione da parte di Biden e tutta buona e giusta, ma il mondo è andato avanti e la ricerca dello status quo ante non può essere l’orizzonte del nuovo presidente. La bellicosità di Trump e la Brexit hanno galvanizzato l’Europa, indirizzandola verso quella che il presidente francese, Emmanuel Macron, ha definito «autonomia strategica». Per la prima volta la Germania ha concesso la federalizzazione del debito europeo, consentendo all’Unione di emettere titoli come un governo nazionale, un importante passo verso un Europa più forte e più integrata.
È tempo di un “New Deal” tra l’Europa e gli Stati Uniti che riconosca l’emancipazione europea e il mutare delle priorità americane cementando allo stesso tempo un’alleanza di valori e di interessi spesso coincidenti.
L’evoluzione europea è stata evidente nei rapporti con la Cina, che in precedenza erano puramente commerciali. Ora, la Cina espansionista del presidente Xi Jinping è vista come una rivale sistemica.
L’Unione europea è stata critica verso la situazione dei diritti umani in Cina, imponendo sanzioni in reazione alla repressione a Hong Kong, ed è giustamente scettica nei confronti delle vanterie cinesi sul fatto di aver dato una migliore risposta alla pandemia.
Tuttavia, le nazioni europee vogliono lavorare in Cina. Una delle maggiori sfide per l’Occidente, con l’Amministrazione Biden, sarà individuare il delicato punto di equilibrio grazie a cui fronteggiare con fermezza la Cina di Xi pur evitando uno sconto aperto.
La Cina è una minaccia esplicita al modello liberale dell’Occidente. Questa minaccia deve essere riconosciuta e bisogna resisterle. La tecnologia cinese, per esempio, non è neutrale. Convoglia informazioni verso Pechino. Ma la Cina è anche parte integrante dell’economia globale.
Lo sfilarsi da ogni suo coinvolgimento da parte di un’arrabbiata “China first” non gioverebbe a nessuno. La bellicosità gratuita e incoerente di Trump ha inutilmente complicato i difficili rapporti tra la più grande potenza mondiale e la potenza che la vorrebbe sostituire.
Le elezioni americane sono state un punto di svolta. E hanno mostrato un’altra volta che quelli che demoliscono la democrazia lo fanno a loro rischio. Le democrazie sono lente a reagire, sono spesso goffe e intrinsecamente disorganizzate. Ma sono anche caparbie e, se provocate, risolute. Sanno che i diktat di un autocrate sono inconciliabili con la ricerca della dignità umana e della libertà. Sanno fare appello alle loro forze per dire a un bullo: «Sei licenziato!» – parole che Trump ancora non sopporta di sentire.
Il risultato è la rinascita di una speranza, per quanto tenue, per il Ventunesimo secolo.
I vaccini potrebbero essere in arrivo. Quello che è certo è che un presidente americano decoroso è già arrivato.
©️ 2020 The New York Times Company & Roger Cohen
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