L’Avvocato del populismoL’evoluzione europeista dei nostri Jake Angeli a cinque stelle, e altre balle

Quando mai Conte e Di Maio hanno riconosciuto di avere cambiato posizione e dato qualche spiegazione delle scelte precedenti? Se fosse mai accaduto, non ci saremmo tenuti un anno i decreti sicurezza e avremmo già preso i 36 miliardi del Mes

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Non si tratta né di fare i pignoli né di fare gli incontentabili. Si tratta del fatto che la democrazia si fonda sul dibattito pubblico. E quando al trasformismo parlamentare si accompagnano camaleontismo politico e relativismo lessicale in dosi così massicce, trasformando la discussione in una palude in cui tutte le idee, ideologie e idiozie possibili si confondono in un’unica poltiglia, la sola battaglia che ha veramente senso combattere è quella per il significato delle parole.

Non è questione di contraddizioni, che ci sono sempre state e ci saranno sempre, in qualsiasi vicenda politica. Certo può fare amaramente sorridere sentir dire che il governo è nato sulla base di due discriminanti fondamentali, «il convinto ancoraggio ai valori costituzionali» e «la solida vocazione europeista», dall’uomo che appena due anni fa arrivava a Palazzo Chigi come leader dello schieramento populista, sovranista e antieuropeista, indicato dal partito che pur di portare Paolo Savona al ministero dell’Economia arrivò a chiedere in piazza l’impeachment di Mattarella (a proposito di vocazione europeista, ma anche di ancoraggio ai valori costituzionali).

Può fare amaramente sorridere sentire invocare da Giuseppe Conte un’alleanza che esprima «una imprescindibile vocazione europeista», compiendo «una chiara scelta di campo contro le derive nazionaliste e le logiche sovraniste». Lui che fino all’altro ieri, da capo del governo gialloverde, si dichiarava apertamente populista e sovranista. «Il sovranismo è nella nostra Costituzione: la sovranità appartiene al popolo», disse in una delle tante varianti del suo gioco di parole preferito, quello intorno all’idea secondo cui essere populisti significa fare gli interessi del popolo (la versione classica e più utilizzata). E siccome il popolo è sovrano, fare gli interessi del popolo significa anche essere sovranisti (lectio difficilior, usata più raramente).

Il punto non sono le contraddizioni, cioè la successione nel tempo di atti e parole di senso opposto, ma la loro contemporaneità, compresenza e intercambiabilità. Per questo è risibile e ipocrita l’obiezione di chi invita a gioire per la cosiddetta «evoluzione» di Conte e del Movimento 5 stelle: perché non c’è alcuna evoluzione, e se è per questo neanche alcuna involuzione, perché non fanno niente di diverso da quello che hanno sempre fatto, a cominciare da quando Luigi Di Maio ringraziò in diretta televisiva Sergio Mattarella, definendolo «angelo custode» del neonato governo gialloverde, circa quarantotto ore dopo averne chiesto la messa in stato d’accusa per le stesse ragioni, vale a dire il suo ruolo nella formazione dell’esecutivo.

Perché ci sia un’evoluzione, sia pure contrastata, contraddittoria e sempre reversibile come tutte le cose umane, occorre che ci sia un percorso, una distinzione tra un prima e un dopo, un riconoscimento di quel che si è detto e fatto all’inizio in relazione a quello che s’intende dire e fare alla fine. Ma quando mai Conte, Di Maio o alcun altro esponente di quel Movimento 5 stelle che voleva uscire dall’euro e che ha governato felicemente con la Lega fino al 2019 ha riconosciuto di avere cambiato posizione e dato una qualche spiegazione dei suoi comportamenti precedenti? Se questo fosse mai accaduto, non ci saremmo tenuti un anno i decreti sicurezza e avremmo già preso i 36 miliardi del Meccanismo europeo di stabilità.

Ma di cosa stiamo parlando? Nemmeno quando di recente gli è stato ricordato in tv cosa diceva sul Pd che «toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli», Luigi Di Maio ha avuto la decenza di riconoscere l’enormità delle sue parole e di chiedere scusa. Per inciso: è a questo punto ufficiale che per il Pd di Nicola Zingaretti è inaccettabile trattare con un partito che critichi duramente Conte sul suo modo di governare, ma lo si può fare benissimo con chi pubblicamente li accusa di rapire i bambini per rivenderli. Capite bene perché, oggi come oggi, dico che la battaglia più importante non riguarda più il significato politico di questa o quella dichiarazione, ma semplicemente il significato letterale delle parole. Perché il passo da qui alle deliranti teorie di QAnon, con tutte le relative conseguenze già viste in America, è brevissimo.

Si può anche sorridere amaramente sentendo scandire in aula che l’agenda della nuova Amministrazione Biden «è la nostra agenda» da parte di Giuseppe Conte, il migliore amico di Donald Trump in Europa, l’uomo che gli ha messo a disposizione i nostri servizi segreti e non ha trovato il modo di criticarlo nemmeno dinanzi all’assalto a Capitol Hill.

Quello che non si può fare è parlare di una «evoluzione» di Conte e dei cinquestelle, che non c’è affatto. Né nella sostanza, né nei metodi, che sono sempre gli stessi, online e offline. E hanno ben poco a che vedere con le nobili tradizioni europeiste, liberali, popolari e socialiste a cui si è richiamato il presidente del Consiglio in parlamento, in uno dei passaggi più surreali del suo incredibile discorso. Richiami tanto fuori contesto quanto lo sarebbero state citazioni di Abramo Lincoln e Martin Luther King nei discorsi di Jake Angeli e degli altri assaltatori del Congresso americano.

 

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