Tratto da Chiudete Internet – Una modesta proposta (Marsilio, 2019)
In Divertirsi da morire, un saggio sulla televisione scritto nel 1985, quando Internet era ancora roba per scienziati, il critico americano Neil Postman diceva che dei due grandi romanzi distopici del Novecento, 1984 e Il mondo nuovo, il più realistico non era quello di George Orwell, come si credeva, ma quello scritto da Aldous Huxley.
Per ricapitolare la tesi analogica di Postman sulla società occidentale, e aggiornarla al nostro tempo digitale, il «Guardian» ha ricordato che Orwell, con 1984, immaginava che la civiltà moderna sarebbe stata distrutta dalle nostre paure. In particolare quella di essere sorvegliati, e di essere controllati psicologicamente dal famigerato Grande Fratello, mentre Huxley, con Il mondo nuovo, spiegava che la rovina dell’umanità sarebbe arrivata dalle cose che ci piacciono e ci divertono, perché l’intrattenimento è uno strumento di controllo sociale più efficiente della coercizione. Huxley ci aveva preso più di Orwell, insomma, ma quello era ancora, soltanto, il tempo della televisione.
Poi è arrivato Internet, una tecnologia che in un colpo solo ci ha regalato entrambi gli incubi immaginati dai due romanzieri inglesi, sia la sorveglianza da parte di Stati e corporation, come temeva Orwell, sia la dipendenza passiva da app e strumenti tecnologici simile agli effetti sedativi e gratificanti della droga «soma» che, secondo Huxley, possedeva tutti i vantaggi della cristianità e dell’alcol, senza averne nessuno dei difetti.
A qualcuno sembrerà esorbitante sostenere che Internet sia lo strumento di demolizione della nostra civiltà e che l’egemonia del Web abbia seriamente compromesso il futuro della società liberale. Gli argomenti catastrofisti però sono eclatanti e non bisogna essere reazionari per accorgersi che l’ideologia dell’algoritmo, l’abuso e la manipolazione dei dati personali e le tecniche di persuasione digitali stiano modificando comportamenti, abitudini e tessuto sociale del mondo occidentale. La lista delle recriminazioni è lunga: il disordine creato da WikiLeaks negli apparati diplomatici e di sicurezza, la videosorveglianza come strumento di repressione e di abolizione della privacy, l’automazione che riduce i posti di lavoro tradizionali, le ideologie politiche sostituite da algoritmi che pescano il sentiment sulla Rete.
Internet però è la più grande innovazione della nostra epoca, la sua evoluzione è il prodotto dell’etica libertaria degli anni sessanta e dello spirito del capitalismo delle origini; nasce come antidoto al mondo scongiurato da Orwell e Huxley; è lo strumento congegnato per sconfiggere il totalitarismo e poi sviluppatosi intorno all’idea che la libera circolazione delle informazioni fosse di per sé un fattore di progresso, di conoscenza e di partecipazione alla vita pubblica. La formula «innovazione più globalizzazione» ha creato opportunità, distribuito benessere e liberato miliardi di persone dalla povertà. Questa formula, oggi sotto accusa, è l’algoritmo dell’Occidente. Le alternative sono grottesche. Per questo le distorsioni di Internet vanno affrontate e risolte prima che sia troppo tardi.
L’effetto della rivoluzione digitale è stato dirompente: in pochi anni Internet ha collegato computer e banche dati; il Web ha consentito alle persone di inviare e ricevere informazioni, voci, immagini, musica, denaro in tempo reale; il Web 2.0 ha fatto interagire gli utenti aprendo le porte all’e-commerce; i social network hanno creato un’unica comunità globale; l’Internet delle cose ha messo in contatto gli oggetti tra di loro; gli algoritmi sono diventati lo strumento per estrarre informazioni dall’enorme massa di dati, i Big Data, scambiati da miliardi di persone; l’intelligenza artificiale ha consentito alle macchine di fornire prestazioni simili a quelle umane; il machine learn ing ha migliorato le prestazioni e le capacità dei dispositivi elettronici grazie a un sistema di apprendimento automatico.
Internet ha cambiato in meglio la nostra quotidianità, facilitandola e arricchendola, offrendo opportunità di sviluppo e di conoscenza inaudite, così come di ricchezza e di divertimento, ma ora che il Web è diventato adulto e che i social network vivono un’adolescenza turbolenta è arrivato il momento di fare un bilancio anche delle conseguenze meno radiose della rivoluzione digitale.
Internet è una cosa, il Web un’altra ancora, mentre i social network sono uno strumento potente e misterioso che si presta ad abusi, anche a causa dell’opacità che li circonda. A minacciare seriamente la società contemporanea, e a far emergere nuovi diritti digitali ancora negati, è l’idea che Google, Facebook e i social network siano piattaforme neutre, né editori multimediali né infrastrutture tecnologiche né fornitori di servizi di pubblica utilità, e per questo non siano responsabili delle informazioni che veicolano, delle attività che vi si svolgono e dei disservizi che causano all’interesse generale. È un’idea sbagliata e pericolosa.
La dittatura dell’algoritmo, la trasformazione dell’utente in prodotto, anzi in cavia da spingere a comportarsi in un determinato modo, assieme allo smembramento dei corpi intermedi della società, hanno indebolito il discorso pubblico dell’Occidente e il risultato è la crisi della democrazia rappresentativa e liberale.
La conseguenza è il grande caos globale che stiamo vivendo. La Brexit, l’elezione di Donald Trump, l’ascesa dei populisti in Italia, le proteste di piazza in Europa, il ritorno dei nazionalismi, ma anche la ritrovata centralità strategica della Russia di Vladimir Putin e la rinascita di leadership autoritarie e illiberali in giro per il mondo, sono la risposta politica all’impatto della rivoluzione digitale sulla comunità globale. Se vogliamo ampliare la sfera di libertà, anziché restringerla, dobbiamo ricostruire un tessuto culturale e politico cancellato dall’indebolimento dei corpi intermedi. Non è una questione ideologica. Non servono interventi di ingegneria sociale. Per ritrovare un minimo di decenza civile è necessario regolamentare i disintermediatori.
I social network non sono da buttare, anzi. Grazie a loro, la società occidentale non è mai stata così aperta e i suoi leader sono costantemente sotto i riflettori dei cittadini, ma il paradosso di questo favoloso ampliamento della libertà e dell’altrettanto formidabile avvicinamento tra il potere e il popolo è che più si critica e più si controlla e più si condiziona chi governa, più si indeboliscono le istituzioni e le procedure democratiche preparando il terreno per l’uomo forte capace di guidare le masse senza tentennamenti. L’esito è sotto gli occhi di tutti e non sbaglia chi vede analogie con gli anni venti e trenta del xx secolo, anni peraltro caratterizzati dalla diffusione di un nuovo potentissimo strumento di comunicazione e propaganda: la radio.
Diffidate, dunque, di chi oggi sminuisce la portata del cambiamento in corso o di chi denigra l’angoscia non solo di un’élite spazzata via dalla disintermediazione sociale e politica, ma ora propria anche di molti dei pionieri della Rete, delusi e affranti dall’evoluzione della loro creatura. Non fatevi abbindolare da chi dice che il progresso tecnologico deve essere lasciato in pace a fare il suo cammino, perché le innovazioni vanno governate, come in passato abbiamo trovato il modo di governare la più grande invenzione tecnologica della prima metà del secolo scorso, il nucleare. L’idea secondo cui ci troviamo in un Game è solo una geniale trovata letteraria di Alessandro Baricco per costruire una narrazione originale della grande mutazione antropologica in corso. Tutto è stato trasformato in partitelle da vincere, come in un videogioco per adolescenti, ma il giochino ci è sfuggito di mano, siamo diventati una società adolescenziale che non tiene più conto dei dati di fatto ed è priva di quei corpi intermedi che, con mille contraddizioni, ci avrebbero potuto proteggere dalla dittatura dell’algoritmo. Basta giocare, adesso. Game over.
La sfida del nostro tempo è quella di trovare un modo di regolamentare le grandi piattaforme digitali, così come si è fatto in passato con i mezzi di comunicazione di massa e con le telecomunicazioni, o con l’energia e le infrastrutture, altrimenti non ci saranno più rimedi contro la fine del mondo, del mondo come lo abbiamo conosciuto, se non quello paradossale di invocare la chiusura di Internet.
Per alcuni, magari, è giusto che il sistema liberal-democratico nato dopo la seconda guerra mondiale sia da abbattere, ma per me no. Non sono un reazionario, sono un beneficiario della società libera e un entusiasta consumatore dell’economia digitale, considero patetici gli appelli neoluddisti a uscire da Facebook o a boicottare Uber, sebbene talvolta ne sia tentato io stesso. Sono un adepto della religione globalista secondo cui l’innovazione tecnologica e l’apertura della mente e delle frontiere fanno parte di quell’arco dell’universo che non può che tendere inesorabilmente verso il progresso.
Questo non vuol dire che una riflessione sul sul sistema economico liberale e occidentale che ha creato Internet non vada fatta. Al contrario. Ma il modello politico, economico e sociale detto della «globalizzazione», che ha dominato gli ultimi decenni, ha contribuito a raddoppiare la ricchezza nel mondo, a far uscire dalla povertà estrema un miliardo e mezzo di persone e ad ampliare la sfera dei diritti su scala, appunto, globale. È una conquista straordinaria, esatta, incontrovertibile, anche se da un punto di vista emozionale questi sono soltanto numeri, statistiche, dati che non raccontano l’imperfezione della realtà occidentale e non sono sufficienti a rassicurare chi si sente escluso. Una delle conseguenze della grande redistribuzione della ricchezza di questi anni, dal Nord al Sud del mondo e dall’Ovest all’Est, è che la classe media occidentale cresce meno di quella asiatica, anche se resta più ricca, un’altra è che in Occidente aumentano le diseguaglianze interne. È una questione psicologica, anche. Percezione contro realtà. Resta da chiedersi quale sia l’alternativa alla globalizzazione.
Non sembra credibile contrapporvi la chiusura delle frontiere, la difesa sovranista delle piccole patrie o una versione aggiornata del marxismo che nel secolo scorso ha creato fame e miseria e lo fa ancora dove continua a regnare. Non è auspicabile nemmeno l’autoritarismo di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdogan, Viktor Orbán, Jair Bolsonaro e Rodrigo Duterte. Per non parlare della rivoluzione sciita degli ayatollah iraniani, o del califfato dell’Isis o del maoismo digitale della Casaleggio Associati che crede di rinnovare le istituzioni democratiche facendo cliccare il popolo sovrano su un server intitolato a Jean-Jacques Rousseau, ossia al filosofo che ha ispirato ghigliottina e totalitarismi e che Isaiah Berlin ha definito «uno dei più sinistri e formidabili nemici della libertà nell’intera storia del pensiero moderno».
Nessuno di questi è un modello migliore della società aperta e globalizzata, o più efficace nel combattere e limitare le ingiustizie e le diseguaglianze, eppure non bisogna sottovalutare le preoccupazioni e le sensibilità di una nuova generazione di nativi digitali che chiedono maggiore protezione sociale, fiscale e ambientale. Non è un caso che siano proprio i nuovi leader millennial, campioni nel destreggiarsi sui social network come la deputata americana Alexandria Ocasio-Cortez, gli unici a denunciare pubblicamente la posizione dominante dei giganti di Internet e a mettere in guardia la società dei pericoli che corre se non si interviene con prontezza.
Negli anni scorsi, in una caparbia rivista di idee che si chiamava «IL Magazine», ho affrontato a lungo questi temi, chiamando a discuterne scrittori e intellettuali, convinto che le conseguenze della rivoluzione digitale ci riguardassero molto più di quanto potessimo immaginare. Ho dedicato diverse storie di copertina alla vita digitale, alla nuova codificazione dello Stato, alla conoscenza al tempo di Internet, alla manipolazione dell’opinione pubblica, alle innovazioni tecnologiche e anche alla necessità di inserire il diritto alla banda larga nella Costituzione. Ma «IL Magazine» ha anche pubblicato una cover con un articolo di Guia Soncini intitolato Una modesta proposta, con tante scuse a Jonathan Swift per avergli sottratto l’idea di satireggiare non sulla fine della povertà come fece lui – tanto su quello hanno già risolto Luigi Di Maio & The Navigators –, ma sulla fine del dibattito pubblico a causa del dominio dei social network. La modesta proposta era quella di chiudere Internet. Il paradosso, scriveva Soncini, è che se tutta la conoscenza del mondo è gratis non frega più niente a nessuno di imparare qualcosa. Ed è esattamente questo il punto, l’approdo cui siamo giunti.
L’articolo, in realtà, proponeva di far pagare l’uso di Internet, «un centesimo per ogni opinione che ci urge esprimere su temi di cui non sappiamo niente», in modo che urga molto di meno e di conseguenza si ponga un argine alla «dittatura dell’incompetenza». Chiudete Internet però rendeva meglio, allora come oggi, di Fate pagare Internet, in ogni caso il cuore di quella copertina e di questo libro è l’urgenza e la necessità di cambiare il modello di business della Rete al fine di salvaguardare la società aperta.
Nelle pagine che seguono proverò a raccontare come siamo arrivati a questo punto, quale sia stato l’archè kakon, come dicevano gli antichi greci, ovvero l’origine di questa catastrofe civile. Mi chiederò come abbiamo fatto, in nome dell’ineluttabile sentiero luminoso indicato dal progresso tecnologico, a corrodere il concetto di opinione pubblica fino al punto di cancellarlo del tutto, assieme ai corpi intermedi della società che per un paio di secoli hanno fatto da filtro tra il popolo e il potere. E, inoltre, come sia fiorito il terreno culturale che produce il populismo nazionalista e perché siamo rimasti indifferenti di fronte agli attacchi al nostro sistema da parte di agenti esterni e interni alla democrazia rappresentativa e liberale. Proverò, infine, a immaginare qualche possibile rimedio.
Non sono un filosofo di Internet, non sono un sociologo, non sono un futurologo, ma un semplice osservatore dell’avanzamento implacabile della libertà, della riduzione della povertà globale e della costruzione del mito dell’incontenibile progresso economico, scientifico e tecnologico di questi anni. La mia, dunque, è la riflessione autocritica di chi non si è accorto che l’espansione della democrazia e del benessere ci avrebbe condotti, al contrario, verso la chiusura della mente occidentale.
Il mio dubbio, oggi, è se non avessero ragione coloro che invitavano alla prudenza, al rispetto della tradizione, a fermare la disruption spietata, mentre alcuni di noi si mostravano entusiasti del grande e inesorabile cambiamento in corso. Se non avessero ragione, quindi, quelli che noi, infervorati del progresso a ogni costo, giudicavamo reazionari, vecchi, non al passo con i tempi. Temo di sì, con il senno di poi.
Allo stesso modo, continuo a pensare che maggiore libertà, maggiore ricchezza e maggiore aspettativa di vita, oltre alle sconfinate opportunità offerte dalla rivoluzione digitale, siano conquiste formidabili per l’umanità, dalle quali non si può e non si deve tornare indietro. Avevano ragione loro, ma avevamo ragione anche noi, a patto che adesso tutti insieme si riesca a contenere Internet.
Tratto da Chiudete Internet – Una modesta proposta (Marsilio, 2019)