L’11 gennaio del 1881 veniva rappresentato al Teatro alla Scala di Milano il ballo più celebre della storia italiana dello spettacolo. Si celebravano i venti anni del Regno, tre lustri di pace in Italia, l’avanzamento del progresso scientifico e tecnico, l’apertura di due nuove vie di comunicazione che avrebbero reso il mondo più collegato e meno distante, il Canale di Suez e il Traforo del Moncenisio e nuove e rivoluzionarie invenzioni quali la lampada elettrica e il telegrafo.
La lotta contro due tremendi agenti patogeni che affliggevano da secoli l’Umanità, la sifilide e il vaiolo, aveva conosciuto grandi progressi e nello stesso anno il chimico Louis Pasteur volle che il termine “vaccino” – sperimentato da Edward Jenner alla fine del XVIII secolo dopo l’osservazione che le mucche gravide contaminate non trasmettevano la malattia – diventasse universale per definire i rimedi presenti e futuri per la prevenzione di tutte le malattie infettive che vi si arrendevano.
Era il trionfo del Positivismo, frutto maturo di quel Secolo dei Lumi che con ogni mezzo, anche il più sanguinario, aveva posto fine all’oscurantismo, alla superstizione, alla concezione tirannica del dispotismo, al dogmatismo religioso. Il termine era stato coniato dal filosofo Auguste Comte, padre della sociologia, nell’opera Discorso sullo spirito positivo, pubblicato a Parigi nel 1844 e diffusosi con qualche difficoltà in anni in cui ancora imperavano il Romanticismo letterario e l’Idealismo filosofico. In tempo di ampie quanto inevitabili lacune scolastiche, può giovare ricordarlo. Auguste Comte è sepolto al Pere Lachaise; nel 2006 mi soffermai, tra le tante più o meno illustri, anche davanti alla sua tomba. Fu una giornata impegnativa.
Il Positivismo introdusse una nuova visione del mondo e si propose al ceto medio come chiave di lettura per comprenderne le contraddizioni e cannocchiale per osservarne i futuri sviluppi. Come ogni Weltanshauung fu anche la religione di una classe sociale che prendeva il posto dell’ormai logora e decadente aristocrazia: la borghesia operosa e sovente illuminata, che in ogni parte del mondo occidentale ne aveva trasformato il volto e il destino.
Una rivoluzione pacifica che avrebbe risparmiato nel resto d’Europa e negli Stati Uniti la transizione drammatica che nel 1917 investì l’impero russo, privo di quella classe intermedia, con le conseguenze drammatiche che si sarebbero proiettate sul XX secolo, generando come reazione alla minaccia sovietica la nascita dei fascismi nel secolo breve raccontato dallo storico Eric Hobsbawm nel 1995.
Il Positivismo si sarebbe spento, e con esso ogni razionalità nei successivi trent’anni, nell’immane tragedia della Grande Guerra, durante la quale parte cospicua del progresso tecnico si sarebbe trasformato in potenziale bellico e in nuove micidiali armi di distruzione che non avrebbero risparmiato le popolazioni civili.
Le conseguenze di quel conflitto, la minaccia sovietica e il generale impoverimento di Italia e Germania trasformarono la borghesia in brodo di coltura della reazione autoritaria annichilita da quelle paure al punto da renderla incapace di opporre sul piano politico le energie che ne avevano fatto per mezzo secolo il motore dello sviluppo sociale ed economico.
Una ripresa di consapevolezza del ruolo civile richiesto si ebbe dal secondo dopoguerra, durò fino agli anni ’60 e l’intraprendenza imprenditoriale, aiutata dai fondi del Piano Marshall, fu all’origine del boom economico di cui la generazione di chi scrive è figlia.
Quali sono oggi le responsabilità e il destino della borghesia italiana impoverita progressivamente ormai da mezzo secolo, ferita gravemente dalla recessione economica ed ora messa in ginocchio dagli effetti della pandemia e da una scriteriata azione di governo sempre più orientata a decretarne il tramonto?
Questa domanda assilla quanti oggi si trovano a contrastare con ogni mezzo democratico il governo presieduto da Giuseppe Conte e contraddistinto da uno sbilanciamento a sinistra mantenuto in vita soltanto dalla paura di consegnare il Paese alle destre populiste e sovraniste che sembrano avanzare con ritmi costanti e con un consenso popolare diffuso.
Un paradosso, vista la missione assistenziale che l’attuale maggioranza parlamentare si è intestata distribuendo tardivi ristori, provvidenze di ogni genere e bonus farlocchi, sognando nel frattempo antistoriche nazionalizzazioni la cui consistenza globale presto ci farà processare per insipienza e mancanza di visione prospettica dall’Unione europea, nonostante la medesima sembri essersi allontana dagli anni di cieco rigore che tanto hanno contribuito alla perdita di fiducia dei ceti popolari e medi nei confronti di Bruxelles.
Se si eccettuano le pur vaste aree del Paese che, stolidamente, confidano nella prosecuzione del reddito di cittadinanza come soluzione ai problemi della povertà, il resto della popolazione invoca invece a gran voce lavoro e sviluppo economico che, com’è noto, non possono nascere dall’iniziativa statale ma soltanto dallo sviluppo delle attività imprenditoriali cui, piuttosto, lo Stato deve garantire condizioni fiscali e territoriali favorevoli allo sviluppo: controllo del territorio, infrastrutture, eradicazione delle diverse forme di criminalità organizzata, giustizia civile, sostegno alla ricerca, valorizzazione del merito conseguito dai giovani nel corso degli studi superiori ed universitari, carriere pubbliche passate al vaglio del rigoroso accertamento delle competenze.
Quando penso al cadavere dell’ignoto quattordicenne migrante proveniente dal Mali, annegato con oltre mille persone nel Mediterraneo la notte del 18 aprile del 2015 e a cui la madre aveva cucito nella fodera della giacca l’ottima pagella scolastica, non posso trattenere l’emozione; confidava che nel nuovo mondo ciò potesse essere un passaporto per il futuro. Chi ci guarda dal mondo che un tempo chiamavamo “terzo” e poi eufemisticamente in “via di sviluppo” spesso attraverso il luccichio di media che traggono in inganno, pensa che il proprio futuro potrà essere migliore laddove l’impegno profuso sin da ragazzi trova riconoscimento e valorizzazione.
Un triste equivoco, ricordato dal grande film di Gianni Amelio, “Lamerica” del 1994 con Michele Placido, che soltanto in alcuni Paesi europei viene smentito dalle tante storie di migranti che hanno avuto successo. In Italia non è così o, comunque, non lo è abbastanza.
Il profitto scolastico preceduto dalla condizioni di pari opportunità offerte a tutti attraverso l’istruzione pubblica di ogni grado e livello corredata da periodi di tirocinio con valore curriculare, l’ammissione nei ruoli della pubblica amministrazione attraverso concorsi semplificati ma non per questo resi ridicoli da prove “lunari”, le assunzioni nel settore privato favorite del possesso delle competenze trasversali e, dove occorre, da quelle tecniche di base apprese nei laboratori scolastici, sono le premesse per la formazione di individualità che possiedano sufficiente fiducia in se stesse per affrontare anche i momenti di difficoltà ed i primi insuccessi, senza per questo andare in frantumi o rifugiarsi nella galassia oscura dei Neet (Not in Education, Employment or Training) che hanno rinunciato al proprio futuro.
Di quelle politiche scolastico/lavorative di grande efficacia ho fatto esperienza nei seminari promossi dall’Unione Europea (Cedefop) e da me frequentati, unico italiano presente, ad Oslo e a Stoccarda nel 2002 e nel 2005.
Secondo il rapporto Unicef del 2019 su dati italiani del 2018, intitolato “Il silenzio dei NEET” nel cluster compreso tra i quindici ed i ventinove anni sarebbero oltre due milioni e certo non saranno diminuiti nel corso del 2020; erano il 24% dei giovani italiani, uno su quattro, condannati ad una vita grama, destinati ad essere dipendenti dall’assistenza pubblica e in alcune zone del paese (il Mezzogiorno d’Italia espone un drammatico 34%) manovalanza già pronta per essere offerta alla criminalità di ogni livello e caratura. Approfondimenti sul tema sono reperibili qui.
Per quanti, più fortunati, oggi vanno a scuola o all’università, presto si manifesteranno le conseguenze di due anni di frequenza mutilata, di programmi non svolti, di relazioni con docenti e coetanei non avviate né sviluppate, gap pesantissimi nella competizione ormai internazionale che contraddistinguerà sempre di più il mercato del lavoro europeo.
Una colpa inestinguibile per un governo che da ciò sarà marchiato a fuoco nel ricordo di una generazione non solo per non avere risolto i già gravi problemi strutturali degli edifici scolastici, ma, soprattutto, per non avere affrontato immediatamente il tema della mobilità intelligente di una popolazione studentesca che in questi giorni si sta giustamente ribellando. Non è di buon auspicio che la Next Generation stia crescendo in Italia nel risentimento e nella paura, sentimenti che non aiutano, specie se uniti alla consapevolezza di essere eredi designati di un ennesimo debito contratto dai propri padri.
Mentre tace Gaetano Manfredi, il Ministro (corporativo) dell’Università e della Ricerca – ingegnere sismico, già rettore dell’Università Federico II di Napoli, presidente della Conferenza dei Rettori Italiani e proveniente dal vivaio prodiano – per il quale il 20 settembre scorso è stato archiviato per prescrizione il reato di “falso ideologico in atto pubblico” contestatogli dalla Procura dell’Aquila nel 2015 non convincono gli appelli dell’attuale titolare del Ministero dell’Istruzione che appaiono più indirizzati alle famiglie, pienamente coinvolte dagli aspetti logistici del problema, piuttosto che ai giovani, che notoriamente non votano. Ma dell’inadeguatezza del personaggio ho già scritto e “non ho altro da aggiungere su questo argomento”.
Intanto il silenzio è calato sul progetto di servizio universale obbligatorio di cui Matteo Renzi si fece interprete nel corso della sfortunata avventura quale Segretario del Partito Democratico, raccogliendo la sollecitazione del Cardinale Bagnasco e ricordando l’esperienza dei peace corps voluti da John Fitzgerald Kennedy nel 1961, sessant’anni fa. Oggi con il destino periclitante del Programma Erasmus di cui ho scritto forse sarebbe il caso di riparlarne anche in funzione riparatoria delle criticità dei ragazzi italiani.
Impoverita da politiche fiscali cui oggi si vorrebbe aggiungere anche una tassa patrimoniale, attaccata su tutti fronti dall’antipolitica che ascrive a proprio merito il disprezzo per il valore delle competenze raccattando i propri quadri attraverso lotterie di vario genere, la borghesia italiana sta scomparendo e arretra a poco a poco verso una dimensione di nuovo proletariato che cerca di tener su la testa, ricorrendo ad ogni mezzo: un tempo era la povertà portata con dignità nell’Italia amara di Aldo Fabrizi e Anna Magnani, dei cappotti rivoltati, dei Ladri di biciclette.
Oggi lo scenario è descritto da film come “The Company Men” diretto nel 2010 dall’esordiente John Wells, con Ben Affleck, Kevin Costner e Tommy Lee Jones o il pluripremiato “Parasite” di Bong Joon-Ho del 2019, rivelazione del cinema sud coreano che descrive il tentativo mal riuscito di una famiglia finita in povertà di infiltrarsi in un contesto più agiato. Nessuna sorpresa allora quando il ceto medio della deep America cede alle lusinghe luciferine di Donald Trump che, nonostante la giusta esecrazione del mondo intero, manterrà a lungo il cospicuo patrimonio di oltre settantasei milioni di elettori con cui presto fonderà un partito ben più significativo di quello, ridicolo al paragone, voluto da Ross Perot nel 1992 e di cui ho scritto su queste pagine.
Una mina vagante che il Grand old party dovrà affrettarsi a disinnescare, poiché neanche l’impeachment può vietare a un cittadino di fondare un partito politico di cui tirare le fila dall’alto della Trump Tower, lanciando come leader qualcuno dei molti seguaci, non tutti minus habentens, di cui dispone. Sarebbe la fine del bipartitismo che ha fatto la storia, e la fortuna, del mondo anglosassone.
Il ceto medio, dunque, come risorsa preziosa della società contemporanea che occorre sottrarre al populismo, alle derive autoritarie, all’astensionismo, all’indifferenza, alla disperazione. Un compito che in mancanza di scelte chiare da parte del Partito Democratico di Nicola Zingaretti, mal consigliato da Goffredo Bettini finirà con accelerare la definitiva scomparsa di quell’ircocervo, definizione lanciata come malefico vaticinio da Francesco Cossiga, sin dalla nascita dell’Ulivo. E ciò soprattutto se le prossime elezioni dovessero veder prevalere Matteo Salvini e Giorgia Meloni.
Comprendere come la posizione di Matteo Renzi si iscriva in tale prospettiva significa uscire dalla banalità delle battute da bar o dalla frusta vulgata circa le aspirazioni personali del senatore di Scandicci che pure esistono ma non disgiunte da una visione di lungo termine che latita invece nelle altre forze dell’attuale maggioranza di governo incomprensibilmente immobili nella contemplazione del baratro che le attende e che può essere evitato soltanto dalla rimozione il più indolore possibile di Giuseppe Conte e dei sicofanti che lo circondano.
Rafforzato dal nuovo corso degli Stati Uniti di Joe Biden e dal rapporto costruito negli anni con Barak Obama e con Hillary Rodham Clinton, Matteo Renzi rimane, per età, vivacità e relazioni internazionali, una riserva della Repubblica, purché lo si guardi con occhi non viziati dalla miopia e dal pregiudizio.
Il tempo passa e gli anni che viviamo non possono essere riempiti da antichi risentimenti, da invidie personali o da rivincite fine a se stesse ed un’ottima mossa potrebbe essere intanto la fusione con il movimento di Carlo Calenda che, per quanto non rappresentato in Parlamento, potrebbe già essere sperimentata nell’elezione del sindaco di Roma.
Di lui mi sono ricordato qualche sera fa quando, per rinfrescare la mente dopo il consueto articolo notturno, ho rivisto su Rai Play tutti le puntate dello sceneggiato Cuore, diretto dal nonno materno Luigi Comencini, nel 1984. Nell’ultimo episodio il giovane Enrico Bottini viene condotto dal padre, un ingegnere positivista convinto e militante, ad assistere ad una rappresentazione del Ballo Excelsior in quell’anno scolastico 1881/82, narrato da Edmondo De Amicis con il linguaggio e le suggestioni patriottiche del proprio tempo.
Il personaggio immaginario del padre del giovane scolaro, non il primo della classe ma nella media dignitosa dei migliori, sarà probabilmente travolto dal fascismo insieme a quella generazione di liberali il cui travaglio politico e umano sto rivivendo leggendo l’ultimo libro di Antonio Scurati “M. L’uomo della Provvidenza”, edito da Bompiani nel settembre dello scorso anno. Nulla di nuovo sul piano storiografico rispetto all’opera monumentale di Renzo De Felice, almeno per chi scrive.
Negli anni ’90 nonostante l’impopolarità dell’autore – emarginato dal Pci per avere criticato i fatti di Budapest del 1956 – e l’impegno istituzionale nel fronte del centro sinistra, mi auto imposi la lettura degli otto rigorosi volumi dell’ex trotskista allievo di Federico Chabod, pubblicati nell’arco di trent’anni da Einaudi. Tuttavia, il valore aggiunto del secondo volume di Scurati, già espresso nel precedente “M. Il figlio del secolo” pubblicato nel 2018, risiede nella specificità della letteratura che si costruisce sui vissuti e sui sentimenti più viscerali del duce del Fascismo (e proprio delle sue budella trattano letteralmente le prime pagine) nonchè degli altri personaggi descritti e ciò sancisce l’utilità dell’opera dello scrittore, nato a Napoli ma cresciuto allo Iulm di Milano, come rivela l’impeccabile pronuncia priva di inflessioni dialettali, tanto comuni e non sempre gradevoli, anche ai più alti livelli del Paese di Dante Alighieri.
Ma, torniamo a quell’ultima scena di “Cuore” di Comencini. L’ingegner Bottini è un borghese colto e fiero del proprio stato e dei sacrifici fatti per raggiungerlo, un pedagogo molto rigoroso, un po’ tronfio e logorroico, ma nutre sincero rispetto e sconfinata ammirazione nel progresso sociale e nella capacità umana di superare la barbarie; animato da tali sentimenti commenta per il proprio figliolo i vari “quadri” dello spettacolo, illustrandone il simbolismo.
Com’è noto, quel bambino fu interpretato da Carlo Calenda ed io, sbaglierò, ma credo che qualcosa di quella finzione televisiva gli sia rimasto attaccata addosso ed abbia contribuito alla sua visione laica del ceto medio e della competenza in politica. Due ingredienti di cui insieme alla passione da boy scout del cattolico e debordante Matteo Renzi e di altri moderati meno noti al grande pubblico mediatico, potremmo avere bisogno negli anni che verranno.
Quando la crisi sanitaria sarà almeno sotto controllo, una grande euforia si diffonderà nel Paese, come nel resto del mondo; sarebbe auspicabile che al posto di ridicoli proclami o della rivendicazione di successi personali si ricordassero le parole di Benedetto Croce, l’ultimo contrafforte della cultura liberale opposto al dilagare del pensiero di Giovanni Gentile che tanto e non sempre onestamente fu utilizzato dal Fascismo.
Il filosofo le scrisse al termine della Grande Guerra da cui l’Italia, formalmente vittoriosa, usciva devastata per vittime e mutilati.
«Con pensosa sollecitudine per le nuove difficoltà, pei nuovi problemi che dalla nuova situazione germinano mi chiedo far festa perché? La nostra Italia esce da questa guerra come da una grave e mortale malattia, con piaghe aperte, con debolezze pericolose nella sua carne, che solo lo spirito pronto, l’animo cresciuto, la mente ampliata rendono possibile sostenere e volgere, mercé duro lavoro, a incentivi di grandezza». Un appello che il ceto medio, le imprese ed i lavoratori tutti faranno bene a raccogliere, facendo memoria delle vittime e degli eroi del nostro tempo.
Ricordiamocene il prossimo 4 novembre, quando vedremo il Presidente della Repubblica salire la gradinata che porta dell’Altare della Patria per rendere omaggio al Milite Ignoto nel centesimo anniversario della deposizione di cui, nel messaggio di fine anno, ha voluto anticipare commosso il valore, oggi più che mai, attuale e sacro.