«Il fatto è che tu non sei un personaggio tragico, né lo sono io. Siamo solo scrittori, e quel che dovremmo fare è scrivere». Ottantasette anni fa, Ernest Hemingway scrisse la mia lettera preferita. Il suo amico Scott aveva pubblicato Tenera è la notte, e lui l’aveva letto.
Nella lettera gli dice che ha combinato un casino coi personaggi, che neanche Gatsby era un granché ma lui può fare molto meglio di così, che Zelda è pazza ed è gelosa di lui. Stabilisce anche l’unica regola sensata per quella cosa che all’epoca si chiamava romanzo e, con la degenerazione della lingua, oggi chiameremmo autofiction: «L’invenzione è una gran cosa, ma non puoi inventare niente che non possa accadere davvero».
Penso spesso a quella lettera, quando vedo libri recensiti sui giornali sui quali scrive l’autore del libro, e magari recensiti da autori che pubblicano con la sua stessa casa editrice. O quando tutte, compattamente, le lettere (intese come letterati, non come epistolario) italiane capolavorano il tal romanzo. Possibile che a tutti quelli che si conoscono piacciano gli stessi romanzi? Quanto saranno noiose le loro cene? Certo, Hemingway dice ogni due righe a Fitzgerald che lui è il più bravo, ma gli dice anche ogni due righe che il suo romanzo fa schifo. Se scrivessi una lettera così a un qualunque conoscente che avesse un libro nella sezione “novità”, quello come minimo mi manderebbe due picchiatori sotto casa (se non è più una novità no: la suscettibilità dell’autore cala quando il libro ha qualche mese e nessuno s’aspetta più che venda).
Una delle frasi più citate e di più nebulosa attribuzione dice che in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti. Ma si conoscevano tutti anche quando Pasolini o Calvino stroncavano la Morante (incidentalmente: l’unica volta in cui Pasolini abbia avuto ragione). Ieri un deputato in aula ha fotografato il libro del momento – Sembrava bellezza, il nuovo romanzo di Teresa Ciabatti – e sotto qualche volontario della moralizzazione ha spiegato al mondo che un conto è fotografare, un altro leggere. Ma, se tutta la gente che piace riceve un libro nel giorno dell’uscita, non è mica perché lo legga, immagino; è perché lo fotografi, coprendo tra tutti i social un’utenza che nessuna pubblicità in prima pagina di giornale potrebbe raggiungere – no?
E tuttavia è impossibile non pensare a Giancarlo Iacovoni, il personaggio di Sergio Castellitto in Caterina va in città, quello che aveva il suo bravo manoscritto nel cassetto, ma i ricchi e famosi non se lo filavano, non perché il romanzo fosse brutto (nessun autore ritiene brutto il proprio romanzo, nessun autore è più disposto a dire a un amico che il suo romanzo è brutto), ma perché «conventicole!»: cosa penserà il lettore qualunque che vede il libro fotografato da tutta la conventicola? Sarà invogliato a comprarlo, illudendosi così d’appartenere alla gente che piace, o sarà iacovonamente portato a sentirsi escluso e quindi a rimuginare invece d’acquistare? Qualcuno ha studiato l’effetto sulle vendite dell’esposizione social?
Nessuno, mai, fotografa un libro per dire che i personaggi sono un pasticcio (figuriamoci prendersi il disturbo di scrivere una lettera all’autore per spiegarglielo). E questo è un problema, spiega Lauren Oyler: «Se sei qualcuno che nessuno critica, sei qualcuno che nessuno prende granché sul serio».
Lauren Oyler ha trent’anni, scrive per varie testate tra le quali la London Review of Books e il New Yorker, è diventata famosa per le sue stroncature d’intoccabili. Ha tra gli altri demolito i libri di Jia Tolentino e Roxane Gay, due dei più poderosi bluff creati dal postmoderno. E adesso pubblica un romanzo.
Il romanzo s’intitola Fake Accounts, esce la prossima settimana, da un’anticipazione pubblicata dall’Atlantic ha il fraseggio di chi ha letto molto Amis, e l’idea di partenza è interessante: ragazza scopre che il suo apparentemente normale fidanzato è in realtà un cospirazionista dell’internet, uno di quei picchiatelli che pensano la combinazione di 5 G e vaccini serva a controllare la vita di noialtri così attenti alla privacy da mettere sui social le nostre foto nude e l’indirizzo degli asili dei nostri figli.
Solo che ora Lauren non è più una con delle opinioni. Una che osa criticare l’incriticabile (son buoni tutti a stroncare Fabio Volo: è per spiegare cosa non funziona nei romanzi dei cocchi del bel mondo che ci va carattere e fisarmonica). Ora Lauren è una con un romanzo. Una che retwitta le sue interviste, le sue anticipazioni, e dalla settimana prossima, ci scommetto, anche il bel mondo che si fotografa col suo libro.
E quindi, forse, abbiamo un nuovo problema da risolvere. Non più come non farsi bloccare sui social dall’amico Scott del quale non t’è piaciuto il libro. Per quello Lauren ha una risposta sensatissima: «Un conto è se c’è gente incazzata con me, un conto sarebbe se nessuno mi chiedesse più di scrivere», ha detto a The Cut che l’ha intervistata. Delle conseguenze d’avere opinioni che non ti facciano più invitare a cena ti preoccupi solo se non sei in grado di pagarti la cena.
No, il nuovo problema che toccherà affrontare a Lauren, a me, a chiunque abbia un libro in uscita è come mantenere una pubblica decenza nel momento in cui dovresti trasformarti in una piazzista.
Nulla di male nell’essere piazzista, me se sei una Oyler -– se, cioè, il tuo profilo pubblico è quello della Solita Stronza – non sarà che i lettori si straniscono, se all’improvviso diventi una Sophia Loren che agita il suo bravo prosciutto implorando «Accattatevill’»?