Ieri un Carneade ha cercato di far licenziare David Simon. David Simon è uno sceneggiatore, ha inventato alcune serie televisive che forse avete visto: The Wire, Il complotto contro l’America, The Deuce, Show Me A Hero. In Italia si trovano su Sky, in America su Hbo, e quindi il Carneade ha fatto ciò che fanno in quest’epoca i giustizieri: è andato su Twitter e ha taggato Hbo.
Su Twitter, David Simon è incazzato nero, sempre. Prende tutti a parolacce, fa il bullo, ha idee molto precise e nessuna intenzione di lasciare che i passanti gliele contestino. È uno di quelli che con l’intelletto fatturano abbastanza da non doverne dimostrare gratis sui social: la sua tipologia di rispostaccia preferita è «Sono impegnato a scoparmi tua madre».
Quando il Carneade ha indirizzato a Hbo le sue proteste – licenziatelo, dice le parolacce – DS ha fatto il bullo come al solito. Sei in ritardo, ha twittato, chiocciolando poi a sua volta la Hbo: «Sono desolato d’informarvi che uso su Twitter lo stesso zozzo linguaggio che abbiamo reso così meravigliosamente creativo e redditizio nella nostra programmazione. Se serve, c’è qui un divano su cui svenire».
Se David Simon non si fosse messo a fare lo sceneggiatore ma avesse conservato il suo primo lavoro – fino a metà degli anni 90 era un giornalista del Baltimore Sun – non si potrebbe, oggi, permettere tanta prepotenza. Perché i giornali oggi sono un settore in remissione almeno quanto la tv fighetta è in apparente sviluppo. E chi vede il proprio mercato contrarsi si terrorizza. E il terrore non è mai buon consigliere. In particolare, negli ultimi anni, il consiglio che il terrore ha dato ai giornali è: date retta ai capricci dei social. Com’è finita lo sapete, ne abbiamo parlato su queste pagine parecchissime volte.
La settimana scorsa, in particolare, ci sono stati due nuovi e particolari casi di quella questione che è il regno del terrore contemporaneo. Cioè: Twitter che chiede la testa di qualcuno, e la ottiene. Nella sintesi di voi giovani: la cancel culture.
Il primo caso riguarda Lauren Wolfe, che lavorava con un contratto provvisorio al New York Times, contratto che è stato interrotto, o almeno questa è la cornice con cui la storia ci è stata presentata, perché Lauren ha fatto due tweet su Biden: uno dicendo che Trump era stato meschino a non fornirgli un aereo di Stato per andare a Washington (notizia non vera, tweet cancellato prima del licenziamento); uno dicendo che aveva i brividi a vedere arrivare Biden al posto di Trump.
Accantoniamo per un attimo le considerazioni sulla linea dei giornali rispetto ai social (i dipendenti del New York Times non dovrebbero usarli per esprimere opinioni politiche), e occupiamoci della percezione di Lauren. Che, a leggerne le difese (da lei prontamente ritwittate), è praticamente la Véronique di Carnage, quella che sa tutto della sofferenza in Africa.
Lauren si occupa di stupri in Congo; Lauren ha un cane (se pensate non c’entri, ripensateci: i suoi amici dicono che licenziandola il Nyt affama il cane, che sappiamo fare più presa dell’umana sul pubblico sensibile); Lauren – ci dicono sempre i suoi amici – si leverebbe il cappotto in pieno inverno, se tu avessi freddo, per dartelo. Lauren è plasmata sulla formina dei buoni. E, come tutti i buoni, crede che la cancel culture non esista. Crede che a restare senza lavoro perché su Twitter qualcuno cancelletta il tuo datore di stipendio siano solo quelli che se lo meritano, che se la sono cercata. Gli indossatori di minigonna ideologica.
Will Wilkinson, da quel che si ricostruisce, è della stessa tipologia umana. Quelli che hanno sempre sbeffeggiato ogni tentativo di spiegare che un sistema in cui i trending topic dirigono il giornale per cui scrivi non è un sistema raccomandabile. Fino all’altro giorno, WW era un dirigente d’un centro studi di Washington. L’hanno cacciato a causa d’un tweet. Il tweet diceva: «Se Biden volesse davvero unire il paese, lincerebbe Mike Pence». Wilkinson era così convinto che non esistesse la cancel culture che neanche s’era accorto che le battutacce non sono una cosa che si possa fare, nell’universo in cui chiunque si offende per qualunque scemenza, e chiunque si offenda procede a chiedere la tua testa.
Un dettaglio interessante è che nessuno di quelli che hanno chiesto le teste di Wolfe e Wilkinson ha mai comprato il New York Times, o fatto un versamento al centro studi. La ragione per cui lo so è che sono stata nel loro ruolo – quello di chi fa battutacce ed è inviso a Robespierre – e ho visto chiedere la mia testa a giornali per i quali non lavoravo più da anni: semplicemente, erano il primo risultato che ottenevi mettendo il mio nome su Google. È così che funziona la nuova etica: non hai la più pallida idea del lavoro di quello che va punito, ma sai che Google può dirti da dove farlo cacciare.
(A questo punto coloro secondo i quali la cancel culture è un’invenzione da bastiancontraristi annoiati direbbero che il mio essere ancora qui a scrivere le mie stronzate è la prova che la cancel culture non esiste; come, d’altra parte, i sopravvissuti a un’esplosione dimostrano che le bombe non sono poi così letali).
Sono anni che tento di spiegare ai più sordi tra i miei amici che sbagliano a pensare la contrarietà a questo regime solo come una difesa delle idee impresentabili; che il sistema per cui, quale che sia la tua idea, io posso fare in modo che tu non abbia diritto di esprimerla è un sistema che prima o poi non conviene neanche al club dei giusti; che non si tratta di destra e sinistra ma di intolleranza; adesso, che a essere licenziata è una rappresentante del club dei giusti, forse infine capiranno.
Thomas Chatterton Williams, che a luglio coordinò la lettera di Harper’s con cui alcuni intellettuali sottolineavano il pericolo del regime della purezza ideologica, notava su Twitter che chiunque venga cancellato si strabilia sempre come non fosse mai successo prima (la Wolfe ha twittato «ma quale cancel culture, io non sono un’ideologia, sono una che non può più pagare le bollette»: che è un’involontaria ottima definizione di cancel culture, la cultura dell’azzeramento dei conti correnti). Dice TCW che probabilmente capiremo il meccanismo solo quando il 70 per cento della popolazione sarà stato prima o poi cancellato e avremo sviluppato l’immunità di gregge.
Intanto però il New York Times dice che non può scendere in dettagli ma la Wolfe non è certo stata licenziata per i tweet. E il Carneade di David Simon giura che il suo tweet era una parodia, mica voleva farlo licenziare davvero. Forse questo è un articolo basato su due false notizie – due su tre, una media degna di Twitter. E tuttavia: la notizia non è forse che il meccanismo sia ormai così consueto da renderle due storie verosimili?