Nella piramide del movimento #metoo, partito dalle megastar hollywoodiane e dall’identificazione di un manipolo di stupratori e molestatori di classe alpha, segno inequivocabile della diffusione di una cultura raccapricciante, qualche mese fa si è arrivati al gradino musica, o per meglio dire, djing. E trattandosi di djing siamo ovviamente dall’altra parte dell’Atlantico, nell’ex-Europa britannica.
A lanciare la campagna metoo #forthemusic è stata DJ Rebekah, una tra le prime donne ad affermarsi nella scena dance. Rebekah è piuttosto cool, una veterana e punto di riferimento della nuova scena di dj donne – che già scriverlo mi faccio pena da solo, prendere atto che ci sia una “nuova scena” legata a un genere è la misura stessa dell’arretratezza anche degli ambienti che abbiamo ritenuto più liberi e aperti. Un cazzo. Letteralmente. Le DJ venivano prese in considerazione se erano bone. Se ci stavano.
Questo racconta DJ Rebekah in una recente intervista al Guardian e le si crede facilmente. Dopo le vicende di dj Morello (RIP) che post-mortem si è trovato accusato da una moltitudine di donne che prima, a Morello vivo, temevano ritorsioni, si è aperta anche lì la voragine. Oggi le DJ si vestono con t-shirt slabbrate, jeans e sneakers, cosa che chi scrive trova piuttosto raffinato e seducente, ma che, per stessa ammissione di alcune di loro, è un tentativo di non essere ghettizzate in quanto donne, di nascondere il proprio corpo che, raccontano, era l’unica cosa che attraeva i maschi della music industry.
Rinunciare a parte della propria identità per non essere categorizzate/i è un altro segno evidente del fatto che viviamo in un mondo molto più grezzo e violento di quanto vorremmo e che non abbiamo fatto abbastanza perché fosse diverso, in special modo rispetto alle questioni di genere. DJ Rebekah quando diciassettenne aveva chiesto in un negozio di dischi se ci fosse la possibilità di iniziare a lavorare lì si era sentita rispondere «Certo, puoi farci dei pompini». Benvenuta! Non proprio l’idea che ci eravamo fatti del negozio di dischi inglese.
Rebekah non era ancora una DJ. Era una ragazza (e chi le aveva mai viste prima nei negozi coi vinili dance, le ragazze) solo una ragazza. Poco tempo dopo ha subito violenza e non è stata violentata perché era un DJ, ma perché voleva diventarlo. Un grande classico del cinema, diciamo. A farlo fu infatti un tale che voleva darle “lezioni” di missaggio. L’hanno tagliata prima ancora che sbocciasse. Ma lei è sbocciata lo stesso.
A Settembre 2020 Rebekah lancia la sua “petizione” su change.org. I punti fondamentali, dopo una breve introduzione, dolorosa quanto ahimè prevedibile, sono questi: assicurare un ambiente lavorativo sicuro dalle molestie di tipo sessuale, obbligare le venues a vigilare affinché questo avvenga e chiedere con forza che «chi sa o vede denunci».
Piuttosto complesso, quanto sacrosanto. Le firme, ad oggi, sono meno di 5.000. Più o meno un decimo di singola una serata con un dj di rilievo. E un centesimo delle youtube views di un montaggio da un’ora di una sua boiler room a Glasgow nel 2017. Lo spazio sui media praticamente nullo. Solo magazine di settore, come MixMag o DJMag che peraltro l’ha premiata nel 2018 come produttrice dell’anno.
L’hashtag lanciato da Rebekah non ha avuto molta presa nemmeno sui social. Un sottobrand del #metoo, in questo paesaggio desolato di corpi persi e anime inesistenti. Questo espandersi delle modalità di denuncia del #metoo tradisce i suoi dolorosi quanto evidenti limiti: man mano che si scende nella piramide della fama, la notizia è meno globale, le headlines sono lontane, la comunicazione è meno impattante – ammesso che quella d’impatto abbia un effetto sulle vite quotidiane delle donne che subiscono molestie e violenze.
Questo è il tema sollevato da molte: quanto aiuta le donne non esposte, non visibili, non bellissimissime il #metoo? Quanto ha cambiato la loro condizione? Fino a quando non ci sarà un #metoo veramente politico e incazzato, la denuncia sistematica e l’abbandono della divisione di classe e status, non varrà davvero l’”anche io” che metoo vorrebbe significare. La battaglia rimane settoriale, quasi per categorie merceologiche; scendendo dalle colline Losangeline ci saranno le professioniste e le dirigenti d’azienda, le insegnanti forse, e le donne assunte nel pubblico impiego, le lavoratrici dei supermercati, delle fabbriche, degli uffici e poi?
Quando si arriverà alle famiglie, il luogo nel quale questo dramma si consuma quotidianamente? Le denunce di violenza e gli stessi femminicidi finiscono per essere fatalmente solo un numero, nonostante gli sforzi di tante persone, in tanti luoghi diversi eccetto che in quello della cura dell’istituzione famiglia. Credo sia molto preoccupante il fatto che quel che è accaduto e accade in un ambiente che è diventato mainstream e globale come quello del djing e della club scene, quel che è accaduto a Rebekah non sembra aver fatto presa sui media. La spinta alla “denuncia”, diciamo così, sembra esaurita. E questo è piuttosto preoccupante. Perché è la cultura a dover cambiare e cambiare una cultura non è qualcosa che avviene velocemente.