Durante il regime dei colonnelli in Grecia (1967-1974) le Comunità europee furono chiamate e decidere se l’accordo di associazione sottoscritto nel 1963 fra Bruxelles e Atene dovesse essere rispettato fino in fondo da Bruxelles ivi compresa la clausola secondo cui l’accordo preludeva a una futura domanda di adesione della Grecia alle Comunità europee (pacta sunt servanda) o se l’arrivo dei colonnelli al potere e le loro atrocità dovesse congelarlo in attesa del ritorno alla democrazia che potremmo definire ateniese (rebus sic stantibus).
Come sanno molti anziani democratici greci, su proposta di Altiero Spinelli e con il voto contrario del liberale tedesco Ralf Dahrendorf – poi diventato baronetto di Sua Maestà Elisabetta II ed euroscettico – la Commissione propose e il Consiglio decise di chiudere le porte in faccia ai colonnelli contribuendo così alla lenta ma inesorabile agonia del regime militare.
Non fu la prima e l’ultima volta in cui i valori democratici prevalsero a Bruxelles accantonando gli interessi economici e commerciali perché lo stesso trattamento fu riservato al regime-canaglia di Francisco Franco che, cosciente di essere alla fine della sua dittatura, aveva avviato verso Bruxelles una inverosimile operazione di captatio benevolentiae bloccata dopo l’esecuzione a Barcellona il 2 marzo 1974 dell’anarchico Salvador Puig i Antich con il metodo della garrota (strumento utilizzato per l’esecuzione delle condanne a morte in Spagna dal 1822 al 1975, ndr)
All’interno dell’Unione europea la questione della scelta fra democrazia e autoritarismo si pose con l’arrivo al potere in Austria, alle elezioni legislative in ottobre 1999, del populista Jörg Haider provocando l’apparente sospensione delle relazioni bilaterali fra gli allora quattordici membri dell’Unione europea e il governo di Vienna che ripresero un anno dopo grazie a un rapporto – degno di Ponzio Pilato – scritto dal finlandese Martti Ahtisaari, dal tedesco Jochen Frowein e dallo spagnolo Marcelino Oreja a nome del Consiglio d’Europa in cui si sosteneva che il governo austriaco era impegnato «nel proseguimento della lotta contro il razzismo, l’antisemitismo, la discriminazione e la xenofobia».
È noto che i criteri per aderire all’Unione europea sono formalmente molto rigorosi essendosi ispirati a quelli che furono adottati dal Consiglio europeo di Copenaghen nell’aprile 1978 (secondo cui «Il rispetto e il mantenimento della democrazia rappresentativa e dei diritti dell’uomo in ciascuno degli Stati membri costituiscono degli elementi essenziali dell’appartenenza alle Comunità europee») e poi nel giugno 1993 che unirono ai criteri politici quelli economici.
Si noti en passant che i criteri del 1978 riguardavano indistintamente l’adesione e l’appartenenza alle Comunità pur non essendo stati inseriti nei trattati esistenti mentre quelli del 1993 riguardavano solo l’adesione precisando le condizioni fissate dal Trattato di Maastricht.
Si noti ancora la differenza fra la formula asciutta del Progetto Spinelli secondo cui «ogni Stato europeo democratico» può chiedere di aderire all’Unione europea e la formula apparentemente più ricca ma di fatto più lasca del Trattato di Lisbona secondo cui ogni Stato europeo «che rispetta i valori previsti dall’art. 2 TUE e si impegna a promuoverli può chiedere di diventare membro dell’Unione».
Cade dunque il rapporto fra il carattere democratico (seppure limitato alla democrazia rappresentativa) e l’appartenenza alle Comunità e ora all’Unione europea.
Approfittando di questa ambiguità e della sostanziale inefficacia delle procedure che dovrebbero consentire all’Unione europea di sanzionare uno Stato (ma di fatto un governo) che viola i valori indicati nell’art. 2, il premier ungherese Viktor Orban ha costruito dal maggio 2010 quella che egli stesso ha chiamato «democrazia illiberale» in un discorso tenuto il 28 luglio 2018 alla Summer Open University and Student Camp organizzata da Fidesz, il partito da lui portato nel 1998 da posizioni liberali e pro-europee a un conservatorismo nazionale di estrema destra.
Cinque anni dopo il partito nazionalista polacco del Diritto e della Giustizia, che aveva già condiviso governi di coalizione fra il 2005 e il 2007, ha a sua volta conquistato i pieni poteri nel Parlamento e alla presidenza della Repubblica creando così al centro dell’Europa uno spazio politico di quasi cinquanta milioni di abitanti al cui interno i principi essenziali dello Stato di diritto sono gradualmente ma inesorabilmente violati, la corruzione è diffusa, le relazioni con i paesi terzi vicini confliggono con gli orientamenti nella politica estera e di sicurezza dell’Unione europea così come confligge l’insieme giuridico che appartiene al controllo delle frontiere, all’immigrazione, all’asilo, alla cooperazione civile, penale e di polizia.
Il compromesso raggiunto al Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre sulla cosiddetta «dichiarazione interpretativa» del Regolamento relativo alla condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione non ha certo valore giuridicamente vincolante perché impegna formalmente solo il Consiglio europeo, che lo ha inserito nelle sue conclusioni, ma – al di là dei tempi più lunghi di applicazione delle misure finanziarie per recuperare o ridurre sovvenzioni concesse a Stati che abbiano violato i principi dello Stato di diritto – restano in vigore in Polonia e Ungheria tutte quelle decisioni legislative e costituzionali che rappresentano delle gravi rotture degli elementi essenziali dello stato di diritto così come è stato definito concordemente dalla Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa e dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Il vulnus di cui soffre l’Unione europea dal 2010 in Ungheria e dal 2015 in Polonia non sarà dunque annullato dal Regolamento votato a maggioranza qualificata dal Consiglio e dal Parlamento europeo mentre rimarrà inapplicabile l’art. 7 del Trattato di Lisbona che affida al Consiglio europeo il potere di constatare all’unanimità l’esistenza di una violazione «grave e persistente» dei valori indicati nell’’art. 2 TUE e che prevede sanzioni talmente ipotetiche da aver consentito, subito dopo il Consiglio europeo del 10-11 dicembre, al Parlamento ungherese l’adozione di una modifica della costituzione in materia di diritto di famiglia che lede i principi della non discriminazione sia all’interno dell’Ungheria che verso l’insieme dei cittadini europei.
Questo vulnus è il prodotto di un’Unione europea che chiede ai suoi membri il rispetto dello Stato di diritto ma che lo viola al suo interno quando il Consiglio europeo esercita funzioni legislative che gli sono interdette dal Trattato, quando il Consiglio europeo o il Consiglio o la Commissione violano il principio della trasparenza, quando il Trattato non prevede l’accesso specifico alla Corte per violazione dei diritti fondamentali, quando il sistema dell’Unione europea non rispetta il principio dell’equilibrio istituzionale, quando i governi nel loro insieme e all’interno dell’Unione europea non operano secondo il principio di responsabilità e infine quando non prevale il principio del primato della legge europea sulle leggi nazionali.
Superato lo scoglio del bilancio pluriennale e del piano per la nuova generazione europea (Next Generation EU) ci attendiamo ora che il Parlamento europeo (im)ponga nell’agenda della Conferenza sul futuro dell’Europa il tema della trasformazione dell’Unione europea da una comunità sui generis in uno stato di diritto aprendo la strada verso un processo costituente di una Comunità federale.