Mi considero un filosofo, anche se ho scritto di molti altri temi; e sono certamente un filosofo che ha anche scritto sette romanzi. Quest’ultimo fatto, date le sue dimensioni e il tempo che mi ha preso dalla fine degli anni settanta a oggi, non può essere considerato un incidente marginale.
Tuttavia questa autobiografia intellettuale non ha riguardato i miei romanzi se non per brevi menzioni. So bene che alcuni di quelli che scriveranno su di me in questo libro prenderanno in considerazione anche i miei romanzi, sia perché in essi trovano molti temi filosofici sia perché vedono questi scritti come un altro dei modi in cui ho filosofato.
Devo dire che, quando ho iniziato a scrivere “Il nome della rosa”, anche se ho usato molti testi di filosofia medievale, non pensavo ci fosse alcun legame tra la mia scrittura letteraria e la scrittura accademica. In effetti ho preso la mia avventura narrativa come una vacanza.
Ero certamente consapevole del fatto che, nella narrazione, avevo a che fare con questioni filosofiche, ma c’erano domande a cui la mia filosofia non poteva rispondere. Sulla sovraccoperta della prima edizione italiana era scritto, alla fine: «Se l’autore ha scritto un romanzo è perché ha scoperto, nella sua maturità, che ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare». Parafrasando Wittgenstein avrei potuto scrivere: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve narrare».
Non ho insomma pensato ai miei romanzi come alla dimostrazione di alcune teorie filosofiche. Sapevo bene che queste opere erano spesso ispirate a dibattiti filosofici, ma questi potevano contraddirsi a vicenda e, nel narrare, mettevo in scena quelle contraddizioni. Così è successo che molti dei miei lettori hanno trovato nei miei romanzi posizioni filosofiche. Ho accettato queste letture ma senza approvarle o respingerle, bensì partendo dal principio che a volte un testo è più intelligente del suo autore e dice cose che l’autore non aveva ancora pensato.
In ogni caso, ammetto che ne “Il nome della rosa” c’è un dibattito sul problema della verità (ma nel modo in cui questo poteva essere stato visto nel XIV secolo da un seguace di Ockham in crisi); ne “Il pendolo di Foucault” c’è una polemica contro il pensiero occultista e le varie sindromi della cospirazione; ne “Il cimitero di Praga” la teoria della cospirazione è di nuovo l’argomento centrale mentre provo a mostrare la follia dell’antisemitismo; “La misteriosa fiamma della regina Loana” affronta problemi sulla memoria oggi studiati dalle scienze cognitive; “L’isola del giorno prima” si diverte a gettare uno sguardo nuovo sulle varie filosofie del periodo barocco e sul caso di un universo senza limiti nato con le scoperte della nuova astronomia; “Baudolino” è una riflessione implicita sulla relazione tra verità e menzogna; e infine “Numero zero” è un dibattito implicito sul giornalismo e la verità fattuale.
Ma qui preferirei trattare, in termini di estetica e teoria della narratività, ciò che potrei definire la mia poetica di narratore. Quando gli intervistatori mi chiedono «Come hai scritto il tuo romanzo?», di solito li interrompo e rispondo: «Da sinistra a destra». Ma è una battuta. In realtà dopo le mie prove di narrativa mi sono reso conto che un romanzo non è solo un fenomeno linguistico.
Un romanzo (come ogni narrazione che eseguiamo ogni giorno, spiegando per esempio perché quella certa mattina siamo arrivati tardi) usa le parole per comunicare fatti narrati.
Ora, per quanto riguarda la fiction, i fatti o la storia sono più importanti delle parole. Le parole sono fondamentali nella poesia (ed è per questo che la poesia è così difficile da tradurre, a causa della differenza di suoni tra due lingue diverse). Nella poesia è la scelta dell’espressione che determina il contenuto.
In prosa accade il contrario: sono il mondo che l’autore sceglie e gli eventi che accadono in esso che dettano ritmo, stile e persino scelte verbali. Ecco perché in tutti i miei romanzi il mio primo tentativo è stato quello di progettare un mondo e progettarlo nel modo più preciso possibile, così da potermici muovere in totale sicurezza.
Per “Il nome della rosa” ho disegnato centinaia di labirinti e piani di abbazie. Avevo bisogno di sapere quanto tempo avrebbero impiegato due personaggi a spostarsi da un luogo a un altro conversando, e questo dettava anche la lunghezza dei dialoghi.
Per “Il pendolo di Foucault” ho passato sera dopo sera, fino all’ora di chiusura, nel Conservatoire des Arts et Métiers, dove alcuni dei principali eventi della storia hanno avuto luogo. Per parlare dei Templari sono andato a visitare la Foresta d’Oriente in Francia, dove ci sono tracce dei loro comandanti (a cui si fa vagamente riferimento nel romanzo).
Per descrivere la passeggiata notturna di Casaubon attraverso Parigi, dal Conservatoire a Place des Vosges e poi alla Torre Eiffel, ho trascorso diverse notti tra le 2:00 e le 3:00 camminando e dettando tutto ciò che potevo vedere a un registratore in tasca, in modo da non sbagliare i nomi delle strade e degli incroci.
Per “L’isola del giorno prima” sono andato naturalmente nei Mari del Sud, nella posizione geografica precisa dove è ambientato il libro, per vedere i colori del mare, del cielo, dei pesci e dei coralli – in vari momenti della giornata. Ma ho anche lavorato per due o tre anni su disegni e piccoli modelli di navi dell’epoca, per scoprire quanto fosse grande una cabina o una buca, e come una persona avrebbe potuto spostarsi dall’una all’altra.
Probabilmente ho iniziato a pensare a “Baudolino” perché da molto tempo desideravo visitare Istanbul, e l’inizio e la fine del mio romanzo sono ambientati in quella città.
Una volta che questo mondo è progettato, le parole seguono e sono (se le cose funzionano nel giusto modo) quelle che quel mondo e tutti gli eventi che si svolgono in esso richiedono. Per questa ragione lo stile de “Il nome della rosa” è – in tutto il romanzo – quello del cronista medievale, preciso, fedele, ingenuo e stupito, piatto quando necessario (un umile monaco del XIV secolo non scrive come Joyce).
Ne “Il pendolo di Foucault”, invece, doveva entrare in gioco una pluralità di lingue, a causa della diversa nazionalità e cultura dei personaggi. Ne “L’isola del giorno prima” è stata la natura stessa del mondo in cui inizia la storia a determinare non solo lo stile ma anche l’effettiva struttura del dialogo e il costante conflitto tra narratore e personaggio.
da “La filosofia di Umberto Eco”, a cura di Sara G. Beardsworth e Randall E. Auxier, edizione italiana a cura di Anna Maria Lorusso, La Nave di Teseo, 2021, pagine 912, euro 29