Ubi maior, minor cessatIl libro che spiega perché nominare Draghi fosse l’unica scelta saggia da fare

Maurizio Stefanini e Sergio Luciano, autori di “L’avvocato e il banchiere” (Paesi edizioni), raccontano il percorso che ha portato Mattarella ad archiviare il governo Conte e a riunire tutti i partiti sotto la guida del miglior nome possibile, anche per il Quirinale

Ettore Ferrari/POOL Ansa/LaPresse 13 febbraio 2021

Esce il 18 febbraio “L’avvocato e il banchiere. Dal premier per caso al «whatever it takes»(Paesi, 160 p., 15 euro) di Maurizio Stefanini e Sergio Luciano.

Il saggio ripercorre la parabola di un «premier per caso» quale Giuseppe Conte si è auto-definito, fino all’arrivo inaspettato di Mario Draghi alla guida di un governo di unità nazionale.

Stefanini e Luciano tracciano le tappe della presa del potere dell’avvocato del popolo, descrivendo parallelamente le gesta di «Supermario» e la sua visione per il rilancio dell’Italia e l’aggancio della ripresa economica.

Ne scaturisce un racconto che analizza tutte le tappe della più grande sfida politica italiana degli ultimi tempi: dalla pandemia a Matteo Renzi, sino all’intervento del Quirinale. Con finale a sorpresa. Un saggio in cui gli autori raccontano come Conte sia già stato archiviato dagli italiani, che confermano una volta di più di avere la memoria corta e di esaltarsi per ogni novità. Ma anche di non apprezzare l’arroganza del potere. Una sindrome che, inevitabilmente, colpisce chiunque governa.

L’effetto Draghi, intanto, ha già fatto il pieno di consensi nei sondaggi. Non era ancora capo del governo, che già il Banchiere aveva avuto il merito di aver rasserenato borse e mercati internazionali, di aver fatto scendere lo spread italiano, e di aver svelenito il clima litigioso della politica italiana.

Politicamente parlando, è bastata la sua presenza per riabilitare Silvio Berlusconi, per fare di Salvini un europeista, e per far impazzire i Cinquestelle e il Partito Democratico. Insomma, una storia avvincente, e molto italiana.

Ecco il primo capitolo: Ubi maior, minor cessat.

Ai primi segnali di crisi politica del governo giallo-rosso, Sergio Mattarella entra nel suo studio al Quirinale, in quella che fu la camera da letto estiva dei Pontefici, e qui si siede prendendo carta e penna. Annota un nome su un foglio. Un appunto che poi custodirà in un cassetto della sua scrivania di manifattura francese, nella speranza che non vi sia mai bisogno di tirarlo fuori. Il nome che ha scritto è quello di Mario Draghi, e figura in cima alla lista dei desiderata del Colle.

Il capo dello Stato sa che, nel caso la crisi si acuisca ancora nel 2021, solo un carattere eccellente e poco incline al pavoneggiarsi, con un profilo sobrio e un’esperienza di rango europeo e internazionale, potrà ottenere quel rispetto che ci si aspetta dall’Europa e potrà ridare onorabilità alla politica e alle istituzioni del nostro Paese.

Inoltre, Mattarella lo ritiene l’uomo giusto per prendere decisioni cruciali in tempi assai difficili. Il presidente della Repubblica sa bene che, ad esempio, con la fine del blocco dei licenziamenti a marzo, la crisi sociale s’inasprirà senz’al­tro, se non saranno posti rimedi.

Quel provvedimento è stato prorogato costantemente sin dal 23 febbraio 2020 (data della proclamazione dello stato di emergenza nazionale), ma un si­mile modus operandi non può durare all’infinito. Questo, uni­tamente alla sfida in Europa per negoziare i prestiti promessi all’Italia senza aggravarne il già pesante fardello del debito, pre­occupa il Colle non meno delle baruffe tra i partiti. Che, per parte loro, da Natale in avanti non mancano di ingaggiare liti e tenzoni indecorose che, il capo dello Stato lo sa per espe­rienza, non potranno che innescare la caduta del Conte Bis.

Così, una mattina Sergio Mattarella si trova a passeggiare pensieroso nel suo studio, pensando alle sorti dell’Italia e all’eredità che egli lascerà ai posteri. L’orologio in stile reggenza ticchetta inesorabile.

Lui guarda fuori dalla finestra il cielo plumbeo sopra la città eterna, poi torna a sedersi sulla sua scrivania presidenziale. Ma, prima di farlo, osserva le grandi tele alle spalle della scrivania. Si sofferma in particola­re su quella del pittore francese seicentesco Jacques Courtois, che rappresenta il martirio di un gruppo di quaranta gesuiti assaliti da un gruppo di pirati. È come un’illuminazione. Qui ci vorrebbe un gesuita. Come Papa Francesco. O quantomeno qualcuno con una formazione da gesuita, che sia qualificato nell’esperienza e saldo nei princìpi. Come Mario Draghi.

***

Ma chi glielo ha fatto fare a Draghi? Se lo sono domanda­ti in molti nell’udire increduli del suo arrivo al Quirinale per accettare l’incarico. Nessuno, tranne forse Matteo Renzi, credeva davvero che il grande economista fosse disponibile. Che potesse accettare di infilarsi nel caos della politica italia­na, dalla quale lui si era sempre ben guardato e salvaguardato.

E poi Mario Draghi ha già raggiunto i più alti obiettivi per un economista. Inoltre, è benestante ed anzi è in quell’a­rea che, senza la minima implicazione di invidia sociale, si può già definire ricchezza.

Il 3 settembre del suo «anno da premier» italiano compirà 74 anni. Ha figli e nipoti, una bel­la villa al mare, un’altra in campagna, una moglie amatissima e – come spesso capita alle persone intelligenti – ha molti hobby. Nella vita professionale ha vinto tutto. Perché mai, allora, si è accollato questa nave sanza nocchiero in gran tempesta che è l’Italia? Un Paese indisciplinato, dove riformare e rilan­ciare ciò che resta della Repubblica italiana per tirarla fuori dalla crisi peggiore dopo la Seconda guerra mondiale, è im­presa quasi impossibile? Lo ha fatto per bramosia di gloria e successo? Stona nel profilo umano di un signore che ha sem­pre evitato riflettori e telecamere oltre il minimo sindacale implicito nelle cariche rivestite. Per soldi, lo abbiamo detto, certamente no. Per il potere? Ne aveva molto di più da ester­no alle cariche istituzionali. E allora?

Lo spiegherà senz’altro la Storia. A priori, però, si possono azzardare delle ipotesi, non campate in aria. Fondate al contrario sulle premesse che si ricavano dai dati noti – non tanti, in realtà – della sua vita privata e da quelli più numerosi che emergono da quella pubblica. Da quel che dicono di lui co­noscenti ed estimatori. Dai suoi discorsi più recenti. E soprattutto dalla logica.

Cosa ci dice la logica? Che quando a febbraio del 2022 scadrà il settennato presidenziale di Sergio Mattarella, sarà fisiologicamente Mario Draghi il candidato naturale a succedergli. O immediatamente, pur violando così un tabù mai di­scusso dal ’46 a oggi, e dunque passando direttamente da Chigi al Colle. Sarebbe certo la mossa più gradita al Parlamento per liberarsi di lui, il «migliore» che fa ombra a tutti gli altri e impedisce ai partiti di tornare ad azzuffarsi tra loro.

O maga­ri dopo un anno, sempre ammesso che maturino le circostan­ze affinché l’attuale capo dello Stato – cui dobbiamo il corag­gio politico di aver conferito l’incarico a un «tecnocrate» – non accetti di essere rinnovato per un altro anno, gestendo così in prima persona l’ultima fase della rocambolesca legislatura in corso, e lasciando poi il Colle alle scelte del nuovo Parlamento, che sarà eletto dagli italiani nella primavera del 2022. Scelte che probabilmente ricadrebbero comunque su Draghi.

Da Palazzo Chigi al Quirinale: è dunque questa la traiet­toria più sensata, oltre che meritata, che potrebbe attendere Draghi alla fine del mandato conferitogli, a meno di impre­dicibili novità politiche che si dovessero palesare o di suoi errori fatali nel governare la crisi e l’Italia tutta.

È ciò che verosimilmente accadrà in mancanza di competitor credibili e comparabili. Se mai ve ne fossero, infatti, si conoscerebbero già. Mentre l’appello degli outsider ha finora prodotto solo nomi imbarazzanti. Quanto alla prospettiva di Draghi presi­dente della Repubblica, avrebbe il sapore della normalità e del buon funzionamento delle istituzioni. Per una volta, niente misteri o intrighi a palazzo. Solo buon senso.

Ma l’unica condizione affinché si possa compiere tale passaggio è che, intanto, almeno qualcuna delle tante sfide da panico che attendono il nuovo capo del governo sia presto vinta. Per esempio, il perfezionamento convincente del piano vaccinale; un piano di ripresa e resilienza degno di questo nome.

E poi, almeno una delle troppe e complessissime riforme che, non tanto l’Europa, quanto piuttosto la logica ci chiede: la pubblica amministrazione, il fisco, le pensioni, la magistratura. Sembra tutta roba da Superman. E non a caso il soprannome giornalistico da decenni affibbiato a Mario Draghi è proprio Supermario.

Ma il suo stesso cognome è un presagio. Draghi evoca qualcosa che l’enciclopedia Treccani chiarisce fin troppo bene: in senso figura­to e gergale, essere un drago è riferito a «persona che ha capaci­tà eccezionali». Mentre, per restare nel gioco del nomen omen, Giuseppe Conte deriva il cognome dal francese antico e pro­venzale, dove Conte significa «compagno di viaggio». E tale è stato il ruolo dell’avvocato che si fece presidente del Consiglio: ci ha accompagnato durante l’Inferno della pandemia ma, come Virgilio, non poté andare oltre il Purgatorio.

da “L’avvocato e il banchiere. Dal premier per caso al «whatever it takes»” di Maurizio Stefanini e Sergio Luciano, Paesi, pagine 160 , euro 15

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