Rebecca per sempreQuando la prima moglie (non) è in vacanza. Su Netflix il capolavoro di Daphne du Maurier

Thriller psicologico, fiaba gotica, cronaca della gelosia sulle ceneri di un amore defunto. C’è tutto nel romanzo della scrittrice inglese, già adattato da Alfred Hitchcock, che ora torna sullo schermo e in libreria grazie all’accattivante trasposizione del regista Ben Wheatley

(Photo by Kerry Bworn / Netflix)

«Mi piacerebbe affermare di aver scoperto Daphne du Maurier dopo essere incappata in una copia ben fatta di uno dei suoi romanzi più oscuri in una libreria di seconda mano», dichiara sul Telegraph la scrittrice nigeriana Tammy Cohen. «La verità è che, come molte persone, sono arrivata a du Maurier tramite la televisione».

Non c’è da stupirsi, quindi, che alcuni incontreranno il nome della scrittrice inglese soltanto ora che su Netflix è approdata una nuova versione di “Rebecca”, il suo romanzo più celebre già adattato per lo schermo da Alfred Hitchcok nel classico che valse al maestro della suspense il suo unico Oscar come miglior film.

“Rebcecca”, da poco ripubblicato in Italia per Il Saggiatore, fece la sua prima apparizione nel 1938 e ottenne un successo immediato con oltre 200 mila copie vendute. Oggi, a quasi un secolo di distanza, è un long seller che in patria sposta ancora 4.000 copie al mese, e una classifica stilata nel 2003 dalla Bbc lo inseriva al quattordicesimo posto tra i romanzi più amati nel Regno Unito, un gradino sopra “Il giovane Holden” di J.D. Salinger.

Nonostante in molti oggi lo considerino un testo chiave della letteratura inglese, la critica dell’epoca fu abbastanza concorde nel classificare “Rebecca” nel genere del romanzo rosa di ascendenza gotica, archiviandolo piuttosto frettolosamente come un modesto esempio di narrativa femminile di consumo. In una recensione apparsa nell’agosto del 1938, il Times Literary Supplement scrisse che si trattava di «una storia di basso livello con un finale mediocre».

Alcuni tuttavia lodarono la qualità della scrittura, ed elogiarono il libro per come sapeva tenere insieme elementi tra loro eterogenei. Lo stesso giornalista del Times riconobbe «l’obbligo di togliersi il cappello davanti alla signorina du Maurier per l’abilità e la sicurezza con cui sostiene una finzione altamente improbabile». Nel dicembre dello stesso anno, il Lincoln Daily Star scrisse: «È il tipico libro in cui può accadere e accade di tutto, persino l’omicidio. Ci sono scene di astuto gioco d’ingegno, di tragico lirismo, di intensa riconciliazione, di dramma fervidamente contenuto».

Come testimonia la stessa Tammy Cohen, «per un’adolescente affamata di glamour che vive in una blanda zona residenziale suburbana degli anni ’70, Rebecca aveva tutto. Un enigmatico eroe romantico con un tragico passato, una meravigliosa prima moglie morta, una sinistra domestica determinata a mantenere vivo il ricordo della sua prima signora e una vecchia casa spettrale e isolata in riva al mare».

A ciò si aggiungeva un’esplicita parentela letteraria con le sorelle Brontë, tra le letture più care alla giovane du Maurier che vi tornerà per tutta la vita, tale da poter considerare il romanzo, come lo definì lo Spectator, «una reimpostazione gotica della Cornovaglia di Jane Eyre». La loro influenza è evidente a partire da uno stile sensibile fino allo psicologismo alle vibrazioni intime dei personaggi, ma capace in modo lampante di imprimersi sulla pagina così come avviene nell’incipit, tra i più memorabili della letteratura inglese: «La notte scorsa ho sognato che ritornavo a Manderley».

L’idea iniziale alla base del romanzo, come ricorda la stessa du Maurier nel libro di memorie “The Rebecca Notebook”, ruota intorno a «una giovane moglie e suo marito leggermente più anziano che vivevano in una bella casa appartenuta alla sua famiglia per generazioni». Successivamente «i semi cominciarono a cadere. Una bella casa… una prima moglie… gelosia… un relitto, forse in mare, vicino alla casa», ricorda la scrittrice. «Ma qualcosa di terribile sarebbe dovuto accadere, non sapevo cosa».

È così che una romantica storia d’amore si trasforma a poco a poco in uno studio sulla gelosia, la fitta cronaca nera di un’ossessione in prima persona nella quale Daphne du Maurier riversa in parte la sua storia personale. Se la tenuta di Manderley rimanda a quella di Menabilly, la casa in Cornovaglia dove du Maurier trascorse gli anni dal 1943 al ’69, la “R” di Rebecca, che nel libro diventa il corpo calligrafico della moglie defunta, rimanda a quella di Jan Ricardo, promessa sposa del marito Frederick Browning con cui la scrittrice resterà fino alla morte di lui nel 1965.

Diversi commentatori, incoraggiati da queste simmetrie, si sono spinti oltre e hanno cercato di vedere nell’attrazione della protagonista per “Rebecca” la latente omosessualità di du Maurier, ovvero, come venivano chiamate allora, le sue “tendenze veneziane”. Analogamente, scrive l’Indipendent, la relazione tra Rebecca e la signora Danvers «è celebrata come un esempio della sottocultura queer di Hollywood. “Danny” conserva con cura i beni di Rebecca fino alla sua biancheria intima e alla fine brucia la casa per vendicare la donna che adorava».

Questo ha fatto sì che prendesse piede un’interpretazione femminista del romanzo che resta tuttora divisiva. Se è vero che l’intera trama può essere letta come una storia di una donna che si emancipa progressivamente dalla sudditanza psicologica nei confronti del marito e della sua ex moglie, è altrettanto facile notare come il romanzo rifletta, prima di sovvertirla almeno in parte, la cultura e la rigida gerarchia dei ruoli proprie del suo tempo.

Madame de Winter, che per tutto il romanzo viene chiamata col solo cognome del coniuge, senza cioè che al lettore venga mai rivelato il suo nome di battesimo, si stupisce che il futuro sposo la chieda in moglie – apostrofandola «sciocchina» – anziché volerla a suo servizio in qualità di segretaria, e il suo unico obiettivo sembra quello di rendere felice il marito-padrone per restare a fianco del quale è disposta a tutto, perfino a rinunciare alla propria identità: «Non pretendo che tu mi ami. Non chiedo l’impossibile. Sarò la tua amica, la tua complice. Trattami pure come se non fossi una donna. Non voglio niente di più».

Secondo un’analisi condotta da LitCharts, però, «la sfida più grande per un’interpretazione filofemminista di “Rebecca” è Rebecca stessa. Man mano che apprendiamo di più su Rebecca, la nostra impressione di lei diventa sempre più negativa». Il risultato sembra lo stesso se osserviamo la storia dal punto di vista del marito. In questo caso l’intero romanzo potrebbe essere letto come l’apologia di un convinto uxoricida.

«Sorprendentemente, il lettore è in qualche modo manipolato o indotto a credere che il suo omicidio e il suo occultamento siano in qualche modo necessari, persino romantici; che essere traditi è un destino molto peggiore della morte di una donna», scrive sul Guardian Olivia Laing, secondo cui la storia è «una cupa rielaborazione di “Barbablù” in cui l’assassino diventa improvvisamente la vittima, adorabile nonostante le sue mani insanguinate».

Se questi elementi non rendono giustizia all’interpretazione femminista, ci restituiscono però intatta la ricchezza narrativa di una scrittrice che Tammy Cohen definisce «l’architetto del moderno “noir domestico”». «È stata la capostipite di “Gone Girl” e “La ragazza del treno”. Le sue storie coinvolgono vite doppie, personaggi complessi che incarnano contemporaneamente sia il bene che il male, e un’oscura tessitura di violenza repressa e sfiducia che attraversa quasi ogni relazione».

È forse questa la migliore chiave di lettura per tornare a godere del romanzo come della sua ultima trasposizione cinematografica a marchio Netflix. Il film di Ben Wheatley ha ricevuto critiche discordanti. C’è chi parla di «un’affascinante vacanza per gli occhi», ristorati dalla fotografia di Laurie Rose, e chi lo reputa un pallido adattamento, «come se qualcuno a Downton Abbey stesse passando una brutta giornata», scrive Caryn James per la Bbc.

Di certo, se Hitchcock dovette cambiare il finale della storia per le regole produttive imposte dal Codice Hays, la versione di Ben Wheatley, l’ultima di una serie, si presenta come un’incarnazione più fedele del romanzo di Daphne du Maurier. Che da scrittrice, in “Rebecca” come in numerosi altri romanzi e racconti, ha spesso lavorato col fantasma della nostra percezione di spettatori proprio come fa il cinema, il quale l’ha generosamente ricambiata.