L’attenzione mediatica di queste ore è concentrata sulle consultazioni che il presidente incaricato, Mario Draghi, sta svolgendo con tutti i partiti al fine di verificare l’esistenza di una maggioranza ampia e solida che gli consenta di completare la XVIII legislatura con un nuovo governo.
Le regole d’ingaggio da parte del Capo dello Stato sono state molto chiare: «Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica».
Tuttavia, alla luce delle recenti dichiarazioni rilasciate al temine dei diversi colloqui, si ha il dubbio che le parole di Sergio Mattarella non abbiano raggiunto i destinatari che, nella quasi totalità e dopo le premesse retoriche di rito, hanno sostanzialmente dimostrato di non aver capito nulla. L’incrocio dei veti, la rivendicazione del mantenimento di alcuni ministri del Conte bis, l’insistenza su aspetti programmatici fortemente caratterizzanti e divisivi sul piano politico, sono il segno di un forte condizionamento che si vuole imporre a Mario Draghi, come se egli fosse uno dei tanti incaricati che l’Italia ha visto in quelli che un tempo si chiamavano governi balneari.
In pochi sembrano aver compreso la differenza siderale che esiste tra le consultazioni che si svolgono dopo le elezioni, con ancora caldi i risultati dell’espressione popolare, e quelle a metà legislatura dopo la clamorosa caduta del secondo governo in due anni. Nel primo caso, si riparte da zero: il popolo ha parlato, il precedente governo è consegnato con meriti e colpe agli annali parlamentari, più tardi agli storici; si apre una nuova pagina di democrazia parlamentare da cui il presidente incaricato prende avvio prima di sciogliere la riserva e presentarsi alle nuove Camere con il programma e l’elenco dei ministri preventivamente approvato dal Quirinale.
Nel secondo caso, invece, si parte dalle macerie del governo precedente ancora in carica per il disbrigo degli affari correnti e la cui ombra incombe sul Paese, se non addirittura pretendendo di ingombrarlo abusivamente, piazzando tavolini che intralciano la pubblica via mentre assicura in falsetto la piena collaborazione. Fatto ancora più grave quando si pensi che le elezioni del 2018 non espressero alcun vincitore netto e hanno dovuto far ricorso ad alleanze d’aula contro natura e a ibridazioni di ogni genere, giungendo perfino a inaugurare la forma inedita del contratto scritto tra le parti elettoralmente contrapposte, dinanzi al notaio: la negazione dei criteri di omogeneità e di fiducia che l’Ordinamento pone a base di ogni coalizione.
I risultati li abbiamo visti già nel primo governo bifronte di Giuseppe Conte: balcanizzazione tra i singoli ministri, confessioni rese davanti ai magistrati di Palermo di non essere a conoscenza dell’operato dei diversi dicasteri, ministri impegnati a portare avanti pezzi del programma del proprio partito, disattendendo il ruolo di coordinamento dell’azione politica in testa al presidente del Consiglio e altre amenità, in un’interminabile campagna elettorale.
Nella seconda e periclitante esperienza si è visto di peggio, dal momento che, a motivo dello stato di emergenza dovuto alla perdurante pandemia e votato dal Parlamento, tutti i poteri sono stati concentrati nelle mani del presidente del Consiglio che si è espresso parodisticamente con l’ormai celebre formula del Dpcm, che fino a un anno fa era ignota ai più.
Il ruolo delle Camere è stato ridotto a mera ratifica di documenti presentati poche ore prima della discussione dal governo e all’autorizzazione degli scostamenti di bilancio, confidenti nel tesoretto promesso dal’Unione europea e ancora tutto da vedere. In mezzo, quasi novantamila morti, gare di appalto “veloci” e spesso inutili e onerose su cui un giorno qualcuno dovrà pure fare luce, battibecchi con le Regioni sulla pelle dei cittadini durante i quali i colori del livello di contagio sono apparsi secondari rispetto a quelli dei singoli tronfi presidenti di Regione, sino all’estrema arroganza di esautorare il Parlamento con una delirante piramide alternativa di potere volta a fare dell’impiego dei fondi del Recovery Plan un gigantesco bancomat elettorale in vista del 2023. Ma di questo abbiamo già parlato spesso e a lungo su questo giornale.
L’esegesi più corretta del messaggio drammatico e urgente del presidente della Repubblica può essere riassunta in poche ma ragionate considerazioni. Un governo non caratterizzato politicamente si fonda sulla piena discontinuità con quelli del passato della presente legislatura e sulla differenza
con quello futuro che verrà fuori dalle urne. Esso si fonda sull’esclusivo interesse del Paese e non fornisce assicurazioni di sorta o ruote di scorta o altre prelazioni a chi è chiamato a sostenerlo.
Ed ecco l’interpretazione autentica dell’invito presidenziale nella dichiarazione di Vito Crimi, da Brancaccio, Palermo: «Nel Movimento Cinque stelle c’è piena consapevolezza della necessità di un governo. Abbiamo detto a Draghi che in questo ultimo anno e mezzo alcune forze di maggioranza hanno lavorato insieme e ottenuto risultati importanti. È su questa base che deve formarsi un nuovo governo con la vocazione solidale ed europeista. Partendo da quello che già è stato realizzato» (da Rai News).
E quella di Luigi Di Maio: «Da oltre due settimane non si fa altro che parlare di crisi di governo. Mentre ci sono decreti bloccati, aiuti e ristori fermi che attendono di essere inviati ai cittadini. Uno stallo generato da una irresponsabile crisi politica. Adesso dobbiamo ripartire in maniera convinta, per questo sono certo che ancora una volta il Movimento Cinque stelle dimostrerà maturità e responsabilità istituzionale. Dobbiamo farlo per gli italiani, ci sono 209 miliardi da spendere» (da Facebook, riportata da Rai News).
Come dire: orecchie da mercante o urgenza di una buona visita audiologica?
Anodina, invece, la dichiarazione di Nicola Zingaretti che la prende alla larga, cita Carlo Azeglio Ciampi e strizza l’occhio a Joe Biden «Nell’ambito della fiducia, che confermiamo, abbiamo espresso al professor Draghi le nostre preoccupazioni e le nostre proposte. Le preoccupazioni sono forti, per le disuguaglianze e la crescita del Paese. Non dobbiamo cedere alle tentazioni di disfattismo, particolarismo, egoismo, occorre suscitare una proposta italiana, che dia fiducia alle persone. Siamo qui perché per raggiungere questo obiettivo bisogna realizzare un nuovo modello di sviluppo rispetto a quello precedente la pandemia che non riusciva a creare giustizia, benessere, crescita. Un governo forte e di lunga durata, con forte ancoraggio all’Europa e alla nostra storica amicizia euroatlantica con l’America, ora guidata da Joe Biden. Centrale sarà la riforma del Fisco, con progressività rafforzata, centrali saranno le politiche in favore del commercio, del turismo, della piccola e media impresa. Decisivo sarà l’annoso dossier della giustizia, decisiva sarà anche la costruzione di infrastrutture sociali. La crisi sta colpendo tutti e in particolare le donne. Per questo bisogna intervenire con politiche di genere» (da Italia oggi).
Come se il Partito Democratico fosse appena tornato da una lunga vacanza alle Bahamas e non si fosse piuttosto adoperato fino all’ultimo brandello di decenza per reclutare i responsabili/costruttori per sostenere, su suggerimento di Goffredo Bettini, il fallimentare governo di Conte e del M5S e di Liberi e Uguali che ha espresso l’esangue ministro della Salute.
Infine l’intervento lunare Matteo Salvini? «Noi non abbiamo posto condizioni. Noi siamo a disposizione, la Lega è la prima forza politica del Paese, dove governa lo fa con ottimi risultati. A differenza di altri non riteniamo che si possa andare avanti a colpi di “no”. Grillo, Conte, la Boldrini? Noi siamo diversi, noi non abbiamo pregiudizi, abbiamo parlato del futuro dei nostri figli». Lo credo bene, visto che l’alternativa sarebbe rosicare per due anni, come ha già capito, mentre gli altri spendono i miliardi di Ursula von der Leyen e attesi dalla propria base elettorale, ormai allo stremo..
La pretesa di alcuni partiti di governo di vedersi rappresentati con i propri ex ministri, quando non addirittura dall’ex presidente del Consiglio e con le parti più caratterizzanti del proprio programma elettorale (il reddito di cittadinanza per il M5S, quota cento e pace fiscale per la Lega, il nulla per il Partito Democratico e la patrimoniale per Liberi e Uguali) è irricevibile poiché, come spiega il termine, prefigura un governo di parte divisivo e quindi connotato politicamente.
Più coerente, a questo punto, la posizione di partiti quali Fratelli d’Italia, Forza Italia, Italia Viva e il neonato Maie, o comunque si chiami, che non hanno posto condizioni annunciando la non-fiducia il primo e il pieno appoggio gli altri tre, a cui bastano la scelta lungimirante del capo dello Stato e l’alto profilo di Mario Draghi.
Un governo chiamato a rispondere alle tre emergenze evocate da Mattarella (come, in ordine di priorità: sanitaria, sociale ed economica), assumendo provvedimenti che, proprio in nome delle medesime esigenze, vadano oltre i programmi politici precedenti votati dagli elettori in tempi e percentuali che appaiono oggi lontanissimi.
Le soluzioni richieste dovranno ora essere funzione dell’analisi impietosa della realtà nazionale, europea e internazionale che si presenta inedita rispetto al 2018. Nessuna sopravvivenza di brandelli del passato recente può essere consentita se non in quanto traguardata sul rilancio del Paese e ciò a opera del presidente del Consiglio a cui legittimamente si potrà anche rifiutare la fiducia, evitando al contempo nuove elezioni dal mese di luglio e fino alla scadenza naturale della legislatura, procedendo di crisi in crisi, fino sulla soglia dei seggi elettorali.
Allora sì che sarebbe un disastro, non solo politico e sociale ma di credibilità all’interno dell’Unione, con conseguenze drammatiche sui finanziamenti promessi e nel mondo economico finanziario che, solo alla notizia dell’incarico provvisorio a Draghi, ha già risposto con segnali importanti circa indici
di borsa e spread. E ciò anche in caso di un improbabile secondo incarico ad altre personalità che non reggerebbero il confronto con le capacità, anche negoziali, dell’ex presidente della Banca centrale europea. Per tacere delle ricadute sul ruolo di presidenza del G20, già iniziato, che vedrebbe alternarsi più presidenti del Consiglio: un incubo inimmaginabile.
Altra cosa è invece la disponibilità a prendere in considerazione quali ministri “tecnici di area” cioè personalità di incontrovertibile e certificata competenza che si riconoscono culturalmente nei vari fronti politici senza per questo esserne esponenti, parlamentari, ministri e da cui attendersi iniziative e interventi previsti dal programma del presidente e veicolati dalle proprie specifiche capacità.
Su ciò il capo dello Stato vigilerà, atteso che, secondo la Costituzione a cui ora si aggiunge la necessità, spetta a lui approvare la lista dei ministri; prerogativa di cui si avvalse nel caso di Paolo Savona, espunto senza esitazione dall’elenco giunto al Colle nel 2018, evento che diede luogo alla minaccia di impeachment più comica della storia delle democrazie e che avrebbe già allora dovuto far aprire gli occhi a molti.
Nella Sala della Lupa che promette di allattare tutti, non si illudano dunque quanti si affrettano ad assicurare a parole l’appoggio al governo Draghi, nutrendo in animo di farlo cadere alla prima occasione utile, per ricominciare tutto daccapo, una volta garantiti dall’impossibilità di sciogliere le Camere durante il semestre bianco.
Il presidente incaricato ha navigato in acque molto più pericolose e frequentate da orche e squali per non percepire l’eventuale malafede di quelli che in Sicilia vengono chiamati “pisciteddi di cannuzza”; se alla fine dovesse rimettere il mandato, ciò decreterà nei fatti anche la loro dissoluzione poiché il Paese non perdonerà a chicchessia di avere bruciato la riserva della Repubblica.
Si faccia dunque un passo indietro, poiché di lato potrebbe non bastare, e si comprenda che alla navigazione sottocosta del piccolo cabotaggio elettorale si è sostituito ora l’alto mare aperto nel quale ogni minimo errore può portare al naufragio definitivo di una barca già sfiancata.
Come ha voluto sottolineare Ferruccio De Bortoli ospite di Lucia Annunziata domenica scorsa, pochi hanno compreso che Mario Draghi è chiamato al compito ben più complesso di quello tradizionale, proponendo ai partiti, che sono e restano i protagonisti del processo democratico, un cambio di paradigma di portata epocale che non potrà che scompaginarne il copione di ormai fruste battute, sostituirne le logore scenografie e mettere in discussione tutti i ruoli della compagnia, dal capocomico, all’attor giovane, ai figuranti.
Un’occasione ancora più unica ed irripetibile di quella finanziaria offerta dall’Unione, a patto che nel secondo atto della commedia si cambino titolo, trama e linguaggio, prima che il palcoscenico sia inondato dai peggiori rifiuti scagliati dagli spettatori che lasciano il teatro dalla porta già aperta sul baratro dove giacciono gli scheletri ormai calcinati di altre fasi della storia repubblicana. Sipario.