Chiunque abbia avuto a che fare con un manuale di organizzazione, con qualche dispensa universitaria o con le rare lezioni di un professore inoltratosi nella contemporaneità, sa bene quanto la soluzione proposta dal presidente del Consiglio per la gestione del Recovery Plan sia una potente corbelleria e ne rivela l’inadeguatezza anche tecnica rispetto al ruolo che ricopre.
Avendone in più occasioni rilevato i limiti politici, accostando molti dei suoi comportamenti recenti a miti, fiabe e romanzi d’appendice in forma di apologo che potessero indicargli una exit escape dalla palude in cui si trova a galleggiare, è giunto il momento di impartire all’Avvocato del Popolo un’agile quanto precisa lezione di ingegneria gestionale.
A partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, il pensiero scientifico ed accademico relativo al tema del cambiamento e ai modelli operativi per introdurlo e gestirlo nelle organizzazioni si è molto evoluto.
La necessità era avvertita da tempo e nelle cattedrali del management stavano soffiando venti che spiravano da settori culturali anche apparentemente lontanissimi dalle scienze manageriali. Già nel 1962, l’opera “The structure of scientific revolution” dell’epistemologo statunitense Thomas Samuel Kuhn aveva insinuato alla base delle granitiche torri del taylorismo-fordismo ancora imperante una miccia che presto avrebbe raggiunto il potenziale esplosivo per farlo deflagrare in ogni ambito.
Il processo di cambiamento della gestione della produzione era stato già messo in crisi nei primi decenni del secolo. Si pensi soltanto al film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin del 1936, in cui un fragile omino in tuta da operaio viene stritolato dalle ruote dentate di un ingranaggio, inviando così un potente messaggio circa l’inevitabile declino del modello classico industriale.
La seconda guerra mondiale con l’inevitabile carico di iperproduzione industriale necessaria allo sforzo bellico aveva in qualche modo acquietato quei fermenti che pure venivano da ancora più lontano e avevano trovato nelle lotte operaie dei primi anni del ‘900 un segnale di mutamento raccolto soltanto da pochi visionari il cui principale esponente era stato in Italia l’imprenditore ebreo di Biella Samuele David Camillo Olivetti, primo importatore di macchine per scrivere e padre di quell’Adriano, ancora oggi inascoltato profeta del “management dal volto umano”, la cui straordinaria vita personale e di industriale illuminato è stata narrata al grande pubblico nel 2013 con la miniserie televisiva “Adriano Olivetti – La forza di un sogno”, interpretata da Luca Zingaretti, non nuovo ai ruoli dei personaggi dell’Italia migliore, da Giorgio Perlasca, lo Schindler italiano, all’immaginario sergente Valerio Blasco in Cefalonia, da Pietro Nenni a Paolo Borsellino.
Lo rivedremmo volentieri in un film che ricordasse il sacrificio di Nicola Calipari durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena nell’inferno iracheno del 2005 e di cui il cantautore Samuele Bersani ha scritto nella canzone “Occhiali rotti” del 2006 «E chissà che poi non capita che ad uccidermi sia la pallottola amica di un marine». Amica o meno la pallottola, quel tragico evento è ancora uno dei troppi misteri italiani.
Con il Piano Marshall non giunsero in Italia soltanto tonnellate di viveri, il boogie woogie e una valanga di milioni di dollari ma anche le scienze manageriali di stampo ancora tayloristico che rafforzarono la conduzione verticistica, allora potentemente rappresentata dalla Fiat di Vittorio Valletta nella “caserma” di corso Dante.
Il passaggio fu solo dagli ordini secchi del padrone a un minimo di organizzazione moderna della produzione, la crescita dei quadri intermedi e una più attenta gestione del personale. Per l’Italia che si preparava al boom economico era comunque un passo avanti e presto sarebbe nata l’identità aziendale del sentirsi fieramente a ogni livello un dipendente Fiat. L’evento chiave, che provocò una decisa rottura con i modelli del passato, può essere rintracciato nella crisi petrolifera che mise in ginocchio il mondo nel 1973.
L’improvvisa consapevolezza che la carenza di risorse petrolifere potesse rivelarsi improvvisamente un cappio al collo delle società industrializzate a motivo della dipendenza dai paesi produttori, esigeva la ricerca di nuove risorse energetiche, di modelli innovativi, di linguaggi fino ad allora inascoltati, di inedite figure manageriali, di tempi, luoghi e modi della produzione. La lezione sarebbe arrivata presto dai garage di Bill Gates e di Steve Jobs a cui si deve molto più che la creazione tecnica del mondo digitale.
Anche nell’Italia dell’austerity di quegli anni maturarono nuove consapevolezze e sensibilità organizzative mentre iniziavano a diffondersi scuole di formazione manageriale come ISIDA, già fondata a Palermo nel 1956 e IPSOA nata a Milano nel 1971, dove operarono a lungo personalità di grande spessore quali Gabriele Morello, ancora oggi brillante amico ed insuperato maestro e il compianto Franco Angeli che, già negli anni cinquanta, aveva cominciato a far tradurre e a pubblicare i testi americani di management, diventando il principale editore di riferimento del settore.
Ne ricordo ancora le tante passeggiate nel centro di Milano durante le quali talvolta commentavamo gli articoli del genero, il giornalista Massimo Franco. Dopo, se ne tornava in Viale Monza con la metropolitana. Basso di statura, fu un gigante nell’intuire più di un cambiamento mondiale e nell’attrezzare i manager italiani. Il suo nome è iscritto nel Famedio del Cimitero Monumentale di Milano, dove è sepolto dal 2007.
Prendeva forma anche in Italia l’idea che il modello gerarchico- militare, fino a quel momento egemone nell’industria italiana e nella pubblica amministrazione, potesse essere superato e archiviato. Tuttavia, nel settore pubblico, nonostante le tante riforme Frattini, Bassanini, Brunetta, Bongiorno altri dimenticati, sostanza, comportamenti e stile organizzativo non sono mai riusciti a evolvere e oggi si vogliono addirittura riproporre per gestire i fondi del Recovery Plan.
Il dicastero per la Pubblica amministrazione è retto oggi da Fabiana Dadone nata a Cuneo nel 1984, eletta già nel 2013 nelle fila del Movimento Cinque Stelle e passata da praticante avvocato a capogruppo nella prestigiosa Prima Commissione Affari Costituzionali, quindi a capogruppo alla Camera e, dal 2019, ministro della Repubblica nel secondo governo Conte.
Con la revisione dei paradigmi industriali, nuovi concetti prendevano forma e, pur se nella versione americana, entravano nel lessico manageriale termini come vision, mission, leadership prendevano il posto del determinismo industriale, della piramide gerarchica, della concezione e dell’esercizio del comando e del potere. Avrebbero invaso presto, sovente come puri nominalismi e vuoti vocalizzi, il linguaggio della politica.
Tuttavia, lentamente l’organizzazione si trasformava per fare i conti con lo scenario della complessità che prendeva il posto della prevedibilità dei mercati, dell’incombente globalizzazione dei medesimi e della granitica ripetitività dei comportamenti spesso governati dalla suprema legge burocratica «Si è sempre fatto così».
La cultura del precedente imperava su tutto e in essa si allevano ancora oggi migliaia di impiegati, soprattutto pubblici. Sarebbe il caso di riflettere su questo peccato originale quando si discetta di burocrazia, come se la cancrena della medesima non fosse altro che l’esito di una politica provinciale e di un’università di massa – per quelle private è tutta un’altra storia – dove sovente chi vi insegna queste discipline non ha mai governato alcuna organizzazione. E non occorreva aspettare i giusti moniti di Carlo Calenda per diventarne consapevoli. L’uomo avrà tanti difetti, ma sulla competenza gestionale c’è poco da ironizzare.
Tra i tanti concetti che si andarono evolvendo nel mondo manageriale è di specifico interesse l’analisi dello sviluppo dei modelli organizzativi.
In principio era la piramide dal cui vertice promanavano gli ordini, via via mediati dalla catena del comando per giungere, spesso devastati dalla legge sulla dispersione della comunicazione, fino agli inconsapevoli e acritici esecutori. Con minimi cambiamenti afferenti più alla natura dell’energia, da quella manuale a quella a vapore prima ed elettrica poi, la cultura organizzativa rimase la medesima per secoli e su di essa si sono versati fiumi d’inchiostro e srotolati chilometri di pellicola cinematografica.
Il grande pubblico si riconobbe in quegli anni nel personaggio di Ugo Fantozzi; per la prima volta si osava portare sugli schermi italiani l’idiozia congenita del potere aziendale e la conseguente frustrazione vissuta dai dipendenti. Dobbiamo molto a Paolo Villaggio, meno a chi, già allora, di quei film avrebbe potuto fare tesoro.
La prima botta al taylorismo arrivò dal Giappone con il modello Toyota, improntato alla coesistenza nella persona del medesimo addetto sia dell’esecuzione che del controllo qualitativo, almeno iniziale, circa il risultato della propria attività. La responsabilità personale veniva ad affiancare la mera abilità tecnica, intanto sempre più robottizzata. Il meccanismo dell’asfissiante supervisione diretta del controllore sull’esecutore cominciava a scricchiolare.
Nel mondo burocratico qualcuno ricorderà le criptiche lettere che corredavano la corrispondenza degli enti pubblici e delle imprese più grandi: in basso a sinistra figuravano in minuscolo le iniziali del dattilografo che aveva battuto il testo dettato a voce dal dirigente, in maiuscolo quelle del revisore e solo a quel punto seguiva la prima firma del funzionario responsabile cui, infine, si sarebbe aggiunto il solenne sigillo svolazzante del sullodato dirigente.
I più giovani non possono nemmeno immaginare quanto fosse infernale il mondo della carta carbone in cui la pena inflitta quotidianamente era l’infinita ribattitura dei testi, per i ripensamenti o il cambiamento d’umore del decisore finale o per la presenza di errori. Il supplizio di Sisifo.
“Circolari” erano soltanto i fogli dispositivi, gli ordini di servizio, il movimento scrotale e poco altro. La comunicazione era unidirezionale: dall’alto gli ordini, dal basso la fatidica e acritica espressione, scritta e obbligatoria, “presa visione”. Insomma, l’Italia industriale e ministeriale poteva riassumersi nel famoso laconico telegramma di Giuseppe Garibaldi «Obbedisco» del 12 agosto 1866 inviato quale risposta al generale Alfonso La Marmora che gli ingiungeva perentoriamente di fermare a Bezzecca l’avanzata vittoriosa ormai prossima alla conquista di Trento.
Nonostante le disfatte del neonato esercito italiano a Custoza il 24 giugno e della flotta a Lissa il 20 luglio ma grazie alla vittoria ottenuta dall’alleata Prussia sull’Austria nella battaglia di Sadowa, con l’armistizio di Cormons del 12 agosto si sarebbe conclusa la Terza Guerra d’Indipendenza.
Tra le condizioni poste dall’Austria sconfitta per la stipula dell’armistizio vi fu la richiesta del ritiro dell’Italia dal conflitto. Guadagnammo il Veneto che ci fu “girato” dalla Francia, Garibaldi, come si sa, «fu ferito a una gamba» ma Trento sarebbe stata liberata soltanto più di mezzo secolo dopo, al prezzo di oltre seicentomila caduti, mentre ovunque già infuriava la influenza spagnola.
Tra gli anni ’60 e ’70, dopo millenni di organizzazione piramidale, i modelli organizzativi cominciarono lentamente a cambiare grazie al già citato toyotismo e alla, pur tardiva, circolazione delle teorie di Mary Parker Follet, Harry Fajol, inventore del concetto di “risorse umane” e di Luther Gulick che tanta influenza aveva avuto sull’economista statalista John Maynard Keynes circa la necessità di incoraggiare almeno il libero scambio internazionale.
Da rigidamente gerarchici e profondamente avvitati sull’etimologia combinata di ieros (sacro) e archia (potere), i nuovi modelli organizzativi furono il “funzionale” che, pur rigidamente, inseriva livelli intermedi dotati di un limitato potere, il “divisionale” basato sulla rilevanza dei singoli processi produttivi , il “matriciale” o “reticolare” considerato oggi il più avanzato e sul quale è utile soffermarsi.
Lo schema di questo modello è articolato ma risulta il più efficace per gestire l’introduzione del cambiamento, soprattutto quando da esso dipenda la sopravvivenza futura dell’organizzazione, posta a confronto con la crescente complessità dell’ambiente esterno. Si disegna disponendo a “matrice”, appunto, i ruoli decisionali con quelli consulenziali. In testa avremo dunque i poteri organizzativi, mentre a sinistra in orizzontale i processi di innovazione che attraverseranno tutte le funzioni verticali con nuove competenze e consulenze parimenti legittimate ed atte a pervadere l’intera organizzazione, senza lasciare “nessuno indietro”.
Dall’incrocio tra poteri e competenze si evidenzieranno i “nodi” in cui si annidano le resistenze al cambiamento, le rendite di posizione, i vuoti di comunicazione e le asimmetrie cognitive ed operative. Si tratta di modello totale che viene supportato da cospicui investimenti sulla comunicazione interna, la formazione continua e il pieno e convinto consenso circa la visione, la missione, gli obiettivi e la valutazione dei risultati. Processi ieri molto costosi, ma oggi infinitamente più accessibili grazie al digitale e alla disponibilità di ogni genere di device.
Il risultato dei sistemi a matrice è la pronta reattività dell’organizzazione sin dai primi segnali di cambiamento dello scenario, la crescita della creatività, la partecipazione attiva di tutti allo scopo aziendale, la demolizione di picchi di potere che contrastino, più o meno dichiaratamente, il cambiamento necessario e posto in essere a tutela degli stakeholders.
I meccanismi di coordinamento conseguenti, sistematizzati da Henry Mintzberg in “La progettazione dell’organizzazione aziendale” (il Mulino 1996) si lasciano alle spalle sia la supervisione diretta e deresponsabilizzante che la rigida standardizzazione di processo/prodotto che comprime e sanziona la creatività; vanno così a configurarsi nuovi accessi allo sviluppo della conoscenza che interagiscono secondo il principio di “adattamento reciproco”.
L’economia della conoscenza è l’obiettivo finale e si sintonizza just in time con la società della conoscenza, attraverso una pluralità di accessi funzionali e di contributi individuali. Il valore così espresso supera di gran lunga il profitto tradizionale e il Pil generato comincia a diventare simile a quello auspicato da Bob Kennedy, poco prima di essere ucciso, nel discorso tenuto il 18 marzo del 1968 all’università del Kansas e che val la pena di riascoltare.
Chi scrive ha tirato su centinaia di studenti di ingegneria gestionale e di neo laureati in discipline organizzative, invitandoli a riassumere decine di teorie innovative, assumendo come golden key delle organizzazioni che avrebbero governato il motto che definisce l’organizzazione come identità “mobilis in mobile” cioè un soggetto leggero e mobile che si muove nell’elemento altrettanto mobile rappresentato dall’ambiente, in continuo cambiamento e in perenne trasformazione.
L’espressione non viene da Palo Alto o dalle università della Ivy League, ricoperte di edera e popolate di geni alla Beautiful Mind che vincono premi Nobel: è inciso sul timone del Nautilus e lo dobbiamo alla fantasia di Jules Verne in “Ventimila leghe sotto i mari”, il romanzo visionario che fu pubblicato in Francia nel 1870, centocinquanta anni orsono (fa parte della Trilogia del Capitano Nemo che comprende il prequel “I figli del capitano Grant” e il sequel “L’isola misteriosa”).
L’adattamento cinematografico di maggior successo fu quello della Walt Disney Company nel 1954, con James Mason e Kirk Douglas. Tu chiamala se vuoi “letteratura per ragazzi” al pari di Moby Dick, di Tartarino di Tarascona e di tanti altri romanzi che valgono talvolta decine di tomi impegnativi, sovente dimenticati e rivenduti agli studenti degli anni successivi dopo aver sostenuto il canonico esame. Nell’apprendimento come nei comportamenti organizzativi, i sentimenti e le emozioni sono motori molto potenti.
Potremmo continuare a lungo in un profluvio, tra saggi e romanzi, di autori e di testi fondamentali di ieri e di oggi. Ma qui preme soprattutto comprendere come, oltre la polemica politica sulla folle idea di Giuseppe Conte circa il modo di gestire i fondi del Recovery Plan, e di cui ho scritto scomodando persino il Sommo Poeta, siamo di fronte ad una concezione organizzativa che farebbe bocciare il premier anche se esaminato da uno studente di economia o di ingegneria gestionale del primo anno.
Non è dato di sapere chi possa avergli consigliato una simile eresia, tanto più gigantesca in quanto riferita all’investimento di centonovantasei miliardi di euro (ma non erano duecentonove?) con i quali rivoltare l’Italia e portarla finalmente nella contemporaneità.
Il terribile sospetto è che non ne abbia parlato con alcuno e, in aurea mediocritas scambiata per imperiale solitudine, abbia concepito onanisticamente tale mostruosità, cullato dal delirio di onnipotenza che lo ottenebra. Un’architettura organizzativa vetusta che avvilisce il Parlamento, umilia il Governo da lui stesso presieduto, fa inorridire Confindustria e Confcommercio, fa strame di decenni di studi di altissimo livello e rivela l’assoluta ignoranza di cosa siano le organizzazioni produttrici di beni o di servizi pubblici o privati che dovrebbero essere i destinatari finali dell’immensa dotazione promessa all’Italia da Next Generation EU.
Vedremo che faccia faranno i paesi frugali dalle architetture scarne e funzionali davanti a tali nuove esibizioni rococò in salsa italica. Ai piedi della nuova piramide Cestia che seppellirà ciò che resta del Belpaese e delle residue speranze di entrare nel novero delle economie – e delle società – del terzo millennio, si stenderà stavolta il cimitero delle occasioni mancate, delle opportunità perdute, delle strade non percorse per ignoranza ed ignavia.
Possiamo solo auspicare che nel prossimo passaggio parlamentare deputati e senatori responsabili, se ancora ve ne sono, sappiano vedere dietro la pochette inamidata il dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio del 1568 in cui un cieco guida verso il baratro i propri compagni di sventura. Il quadro non è lontano, si trova nel museo della Reggia di Capodimonte a due passi da quella di Caserta che ospita una delle sedi della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione dove hanno insegnato personalità illustri di ogni branca del sapere italiano ed internazionale. Si ispira alla prestigiosa Ecole Nationale d’Administration che fu istituita da Charles De Gaulle nel 1945 per formare la nuova classe dirigente della Francia epurata dai collaborazionisti di Vichy e una sorta di passaggio obbligato per l’accesso ai ruoli pubblici apicali. Dagli anni settanta vi hanno studiato nove dei quattordici primi ministri e quattro presidenti della repubblica: Valéry Giscard d’Estaing, Jaques Chirac, François Hollande ed Emmanuel Macron che, suo malgrado, è stato costretto a chiuderla nell’aprile dello scorso anno dietro la pressione di piazza dei Gilet Gialli – sì, proprio quelli con cui i nostrani pentastellati a quel tempo alleati di Matteo Salvini hanno a lungo amoreggiato – che hanno in odio le elite. Ne ho scritto su questo giornale.
Dell’incompetenza e della relativa pericolosità per la società aperta ha scritto nel 2018 Tom Nichols docente al Naval War College e all’Harvard Extension School e che, nonostante la vicinanza al GOP, definì a suo tempo Donald Trump “mentalmente instabile” per diventare Commander in Chief.
Nel saggio del 2017 intitolato “La conoscenza e i suoi nemici”, l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, tradotto in Italia per i tipi di LUISS University Press, ha affermato: «La fine della competenza non è solo il rifiuto del sapere esistente. È fondamentalmente un rifiuto della scienza e della razionalità obiettiva che costituiscono le fondamenta della civiltà moderna. È segno di una politica ossessionata dalle terapie e piena di diffidenza verso la politica formale, cronicamente scettica ne confronti dell’autorità e in preda alla superstizione.
Abbiamo chiuso il cerchio, partendo dall’età moderna in cui la saggezza popolare colmava inevitabili lacune della conoscenza umana, attraverso un periodo fortemente basato sulla specializzazione e la competenza, fino a un mondo post industriale e orientato all’informazione dove tutti i cittadini si ritengono esperti di qualsiasi cosa. Ogni affermazione di competenza da parte di ogni esperto vero, nel frattempo, produce un’esplosione di rabbia in alcuni segmenti della popolazione americana pronti a lamentarsi che simili rivendicazioni non sono altro che fallaci appelli all’autorità, segni inequivocabili di un temibile elitarismo nonché un evidente tentativo di usare le qualifiche per soffocare il necessario dibattito richiesto dalla democrazia reale….Una società moderna non può funzionare senza una divisione sociale del lavoro e senza fare affidamento su esperti professionisti ed intellettuali. Prosperiamo perché ci specializziamo e perché sviluppiamo meccanismi formali e informali che ci permettono di fidarci reciprocamente per le rispettive specializzazioni».
Molti anni fa scrissi che un popolo è civilmente progredito quando davanti ad un vecchio maestro che passa per strada si toglie il cappello e gli fa ala affettuosa e riconoscente. Ho paura che quel tempo sia passato ed è meglio per i vecchi maestri che ancora resistono, restare a casa, non tanto per timore del Covid 19 quanto per non vedere i danni causati da un altro e più pericoloso virus difficile da sconfiggere, specie quando è assiso tanto in alto come la mosca cocchiera e illude se stesso e gli altri di guidare il carro della storia.