Un piccolo passo per un uomo, un grande passo «per il marxismo-leninismo». Per fortuna, non è andata così. Ma poche variabili hanno impedito che la storia prendesse un’altra piega e la corsa allo spazio, con il trofeo simbolico dell’allunaggio, venisse vinta dall’Unione Sovietica.
Come sarebbe andata? La risposta (o meglio: una delle milioni possibili) la dà la serie tv “For All Mankind” (si vede su Apple TV), creata dallo sceneggiatore Ronald D. Moore, che immagina – dopo anni di verità alternative – una storia alternativa. I russi anticipano la missione americana, la Luna viene conquistata e il programma inaugurato dal presidente Kennedy sembra vacillare (anzi fallire) sotto Nixon.
Secondo Moore, che si è divertito a creare un effetto domino dettagliatissimo, l’America avrebbe reagito accelerando i tempi e, soprattutto, alzando la posta. Ai russi che inviano la prima missione di cosmonaute (nella realtà la prima astronauta a toccare la Luna, se tutto va come previsto, arriverà nel 2024) la Nasa risponde reclutando per la prima volta donne e minoranze, aumentando gli investimenti nei programmi di ricerca spaziale e spingendo l’acceleratore sull’innovazione tecnologica.
Risultato numero uno: arrivano a pioggia (e in grande anticipo) invenzioni come telefoni cellulari, email e auto elettriche. Il primo sbarco su Marte, senza equipaggio, avviene nel 1975. Risultato numero due: si dà il via alla colonizzazione della Luna, impiantando Jamestown, una base stabile abitata dagli astronauti che si allarga nella seconda stagione, disponibile da poco (ogni venerdì esce una puntata).
C’è anche un risultato numero tre, e sono le ricadute sul resto del mondo, che vengono indagate in modo minuzioso. Ronald Reagan diventa presidente nel 1976. John Lennon sopravvive. Gli Stati Uniti mantengono il controllo di Panama (fondamentale per il suo programma spaziale).
Il tutto viene raccontato attraverso le frizioni, i conflitti e le difficoltà degli astronauti dell’esercito, protagonisti, con le loro ambizioni e personalità, di un progetto complesso e ambizioso.
In questa serie «ho voluto mettere un po’ dei miei sogni da bambino», spiega Moore a Le Figaro. «Ma nella realtà, dopo gli anni ’60, il programma spaziale ha cominciato a ricevere sempre meno finanziamenti» C’erano altri problemi da affrontare, certo. Ma rimangono due dubbi.
Il primo è che l’ucronia di “For All Mankind” abbia tratti più utopici che distopici. Quello che racconta non è altro che un progresso anticipato, sia tecnologico che sociale, in cui si dà comunque per scontato che alla fine – per cultura e determinazione – vincano comunque gli Stati Uniti. Non sarebbe stato meglio così?
Il secondo è che la coincidenza dell’uscita della seconda stagione con l’arrivo su Marte del rover Perseverance (nome che simboleggia, del resto, tutto il senso della serie) sia un caso fino a un certo punto.
I progetti per la colonizzazione del pianeta rosso, che procedono con la giusta prudenza della scienza, hanno già chiamato in causa l’idea di una nuova corsa allo spazio. E la celebrazione del passato, anche se mediata dallo schermo della storia alternativa, altro non fa che ricostruire la stessa atmosfera. Quella di un’umanità che sceglie, per vocazione, natura e interesse, di aprire nuovi orizzonti fuori dalla Terra.