Oppresso dai «vapori oscuri», stanco per la malattia, il poeta inglese romantico John Keats, si ferma a Roma. Doveva essere l’ultima tappa del suo viaggio di salute in Italia, prima del ritorno in Inghilterra dove avrebbe sposato Fanny Brawne, il suo grande amore. Invece l’aggravarsi della tubercolosi lo tiene bloccato per mesi fino a quando, il 23 febbraio 1821, morirà.
Gli ultimi giorni, passati in compagnia dell’amico Joseph Severn sono una lunga agonia puntellata di lettere, racconti e poesie. È un lento avvicinarsi alla fine: il poeta lo sapeva, la morte era sempre stata una sua ossessione. Si indeboliva, soffriva. «Scrivere una lettera per me è la cosa più difficile del mondo».
In quei giorni sentiva di vivere una sorta di «esistenza postuma», si considerava già finito. Intorno a lui si affannavano in tanti: il vicino di casa, Giorgio Rea, che si prodigò per fargli ottenere le migliori cure, e il dottor Clark, scozzese, che gli prescriveva diete a base di pane e acciughe («una al giorno») e tanti salassi.
Sono passati 200 anni. La stanza in cui Keats morì, da cui vedeva la scalinata di Piazza di Spagna e la Barcaccia, è diventato una casa-museo. E dal 2014, ogni 23 febbraio viene messa in scena in quegli ambienti “Lift Me Up, I Am Dying”, dramma di Pele Cox costruito assemblando tutti i documenti di quel periodo. Le lettere di Keats, quelle di Severn, la corrispondenza con il collega-rivale Percy Bisshe Shelley, poesie e versi a volontà. Il titolo è l’ultima frase pronunciata dal poeta: «Sollevami, sto morendo».
Per il 2021 l’appuntamento della recita è considerato ineludibile. E allora viene spostato su Zoom – come quasi ogni cosa ormai.
Con gli attori sparsi nel mondo, il dramma viene ripensato dalle radici e diventa una sorta di film-assemblaggio. Tanta buona volontà che si scontra con tutti i limiti delle videochiamate che conosciamo. Luci maldestre, sonoro improvvisato, poca grazia in generale. Ogni attore si è auto-filmato e ha mandato i suoi contributi, ma il montaggio non poteva eliminare la fondamentale disomogeneità delle riprese.
Christian Roe interpreta Keats, Nicholas Rowe invece è Severn (e ha anche una somiglianza fisica impressionante). Damian Lewis recita la parte di Shelley.
Il risultato si può vedere su Youtube, ospitato dal canale della British School at Rome. Gli appassionati hanno applaudito, anche perché l’assurdità della situazione presente ha alleggerito la pesantezza di certe metafore. Il resto lo ha fatto la recitazione, di alto livello e forse, la sensazione che la poesia superi davvero la prova del tempo. O il fatto che la storia della fine di Keats sia affascinante in sé.
Il lento spegnersi di un poeta – mentre in patria le sue opere venivano sbeffeggiate – è sempre accompagnato da considerazioni sull’infinito, sull’arte e sul destino umano. Ma, si scopre, anche a scene di involontaria comicità. Ad esempio, per lamentarsi della qualità dei pasti che venivano serviti, «Keats ogni sera, di fronte al cameriere, buttava i piatti della cena dalla finestra». In piena piazza di Spagna.
A Severn, poi, toccano parti pesanti e penose. «Per tre settimane ho vegliato su Keats – scrive. Di giorno gli leggo pagine di libri, a volte anche di notte. Accendo il fuoco, preparo la colazione, qualche volta devo cucinare, fargli il letto e perfino spazzare la stanza». Ma quello che lo irrita di più «è occuparmi del fuoco. Io soffio, soffio per un’ora, ne esce solo del fumo che invade tutto, la pentola d’acqua cade sui legnetti, non c’è una stufa, Keats mi chiama perché stia con lui, io mi brucio le mani e proprio in quel momento suona il campanello».
Sono gli ultimi istanti, quelli che rivelano l’affetto profondo tra i due amici, il senso del dovere e la forza di superare la mancanza. «Keats si desta dal sonno e apre gli occhi con spavento. Quando mi vede si calma, li chiude e li riapre con gentilezza. Per addormentarsi di nuovo. È solo questo che mi dà la forza di stargli vicino», dichiara.
Il 23 febbraio Keats morirà, per essere sepolto nel cimitero acattolico di Roma, al Testaccio. Una tomba che diventa meta turistica per anglosassoni romantici e non. Di questi, il più devoto sarà – a sorpresa – Oscar Wilde. Arrivato a Roma, si inginocchierà di fronte alla lapide del poeta e dichiarerà quel pezzo di terra «luogo sacro». Un omaggio alla tradizione romantica.