15-minutes walk cityI progetti di Milano e di altre città europee per riportare le persone in città

La pandemia ha convinto molti cittadini a lasciare gli affollati, rumorosi e costosi centri urbani. Le amministrazioni comunali sono chiamate a ripensare i propri spazi, ma non per ripristinare l’ordine precedente: il riconoscimento del New York Times e il ruolo dell’assessore Maran

Claudio Furlan/LaPresse

Nell’ultimo anno le città si sono svuotate. Con gli uffici sostituiti dallo smartworking e la didattica a distanza, i grandi centri urbani si sono spopolati. A Milano c’è stata una flessione significativa. Non tanto tra i residenti, che sono diminuiti di poco, «ma tra lavoratori temporanei, studenti fuori sede, e il fatto che si sia fermato il mondo delle fiere e degli eventi, diverse decine di migliaia di persone non abitano più in città», dice a Linkiesta l’assessore all’Urbanistica, al Verde e all’Agricoltura di Milano Pierfrancesco Maran. Poi aggiunge una postilla: non avendo numeri per inquadrare i non residenti è difficile avere stime certe di quanti sono andati via da marzo 2020 a oggi.

È stato un problema comune a molte grandi città. Ne ha parlato il New York Times in un articolo in cui mette in parallelo le esperienze di Londra, Parigi, Dublino, Berlino, la stessa Milano. «Quasi un anno dopo i primi lockdown e con nuove restrizioni all’orizzonte ci si chiede come far tornare le persone nelle città. O, al contrario, come impedire che i cittadini scelgano di restare fuori città definitivamente», si legge nell’articolo.

Un minor sovraffollamento cittadino significa, per i Comuni, dover e poter ripensare i propri spazi, affrontare problemi che erano presenti già da tempo e che sono esplosi con la pandemia: «Accessibilità abitativa, trasporti sicuri e spazio verde – scrive il New York Times – ora sono diventati prioritari, più urgenti».

È uno di quei cambiamenti già in atto che la pandemia ha solo accelerato. È l’effetto ciambella: i costi degli affitti nel cuore delle grandi città aveva raggiunto picchi insostenibili per molti, così come l’inquinamento acustico e atmosferico avevano reso quei luoghi meno ospitali, spingendo i residenti in periferia, dove le case sono più accessibili, e lo stesso vale per le aree verdi.

Il New York Times cita uno studio che ha rilevato un esodo da Londra di circa 700mila persone. E se la capitale del Regno Unito è un caso particolare, le stime parlano comunque di un 10% di abitanti che hanno lasciato Madrid, Milano, Berlino; il 20% è andato via da Parigi.

La scorsa estate, in quella parentesi tra la prima e la seconda ondata, il Comune di Milano si è attivato per rimettere in moto la vita cittadina: «Milano è stata una delle prime città a reagire e a provare a rimodellare i suoi spazi, cercando di dare un volto nuovo alle zone pubbliche», spiega Maran. A giugno l’amministrazione cittadina ha aperto nuove piste ciclabili e concesso a ristoranti e bar spazi all’aperto per rimettere in moto le attività. «In una fase di crisi è importante muoversi e fare scelte diverse dal solito. Prendiamo i bar: anche i più dubbiosi hanno deciso di scommettere sulla riapertura grazie alle nuove disposizioni, perché era un’opportunità. In un momento di difficoltà è importante creare movimento, un elemento di novità, magari anche facendo cose migliorabili nel tempo: nelle crisi c’è bisogno di creare la voglia di rimettersi in gioco», spiega Maran.

E c’è un altro elemento fondamentale di cui tener conto: «I cambiamenti a cui ha costretto la pandemia – aggiunge l’assessore – come la didattica a distanza per le università: gli atenei vogliono tornare quanto prima alla didattica in presenza, ma le lezioni a distanza potranno essere un’opzione utile se fatte in misura minore rispetto a oggi. E un discorso simile vale anche per lo smartworking. Sappiamo che questo porterà conseguenze negative in termini economici, ma sarà anche un’occasione per creare condizioni migliori, un nuovo benessere, da spazi cittadini meno congestionati».

La strada tracciata dal Comune di Milano e da altre grandi città europee è quella di costruire centri a misura d’uomo, con distanze minori, servizi più accessibili e una nuova valorizzazione delle piazze e dei centri di quartiere. È l’idea della 15-minute-walk-city, la città in cui tutti i servizi essenziali sono a una distanza contenuta, idealmente non più di un quarto d’ora a piedi.

Parlando con il New York Times Malcolm Smith, urbanista dello studio britannico Arup, ha spiegato che la pandemia «ha messo in luce l’importanza dello sviluppo di città divisibili in moduli più piccoli, con servizi essenziali concentrati attorno a diversi centri, più piccoli ma più diffusi, quindi anche meno trafficati e con aria più pulita».

A Parigi, che stava perdendo residenti anche prima della pandemia, la sindaca Anne Hidalgo aveva già provato a importare l’idea della 15-minute-walk-city: «Sta facendo di tutto per ridurre il traffico automobilistico nel centro e promuovere più spazi verdi; con la pandemia ha trasformato Rue de Rivoli, un’arteria principale, in un’autostrada ciclabile; è riuscita a migliorare la qualità dell’aria e a trasformare i parcheggi in posti a sedere a disposizione di ristoranti e bar. E adesso promette di rendere permanenti molti di questi interventi», spiega il New York Times.

Milano va in questa stessa direzione, dice l’assessore Maran: «Milano sta investendo nella trasformazione spazio pubblico, nella riscoperta piazze di quartiere, anche di quartieri periferici, che non è solamente una questione di spazio pubblico, ma di organizzazione di servizi pubblici e privati di prossimità».

È una trasformazione che non è necessariamente indotta dall’amministrazione cittadina, ma arriva da più direzioni. Maran fa notare come molti servizi, come i supermercati, già prima del 2020 stavano abbandonando le strutture enormi fuori città, per entrare nel perimetro cittadino con misure più contenute.

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