Elenco non esaustivo di esami fallimentari sostenuti nella mia vita. L’elenco non include la scena muta all’esame di storia alla maturità, visto che venni comunque promossa dopo averli ritronati di opinioni su Beckett durante l’orale d’inglese (posso solo immaginare l’avvincenza delle opinioni d’una diciottenne ciuccia e presuntuosa sul teatro dell’assurdo).
Quella volta che, al quarto tentativo d’esame per la patente, l’esaminatore sibilò «Scenda» dopo che avevo curvato per infilare l’arco del Meloncello a una velocità che è un miracolo non ci fossimo schiantati.
Quella volta che, quindicenne, mi rimandarono a settembre in tutte le materie; quando m’alzai dall’esame di storia e geografia convinta d’aver finito, la prof mi disse che mancava educazione civica, della cui esistenza nessun alunno normale si ricorda durante l’anno scolastico, figuriamoci d’estate. Ella chiese «L’Italia è una repubblica fondata su?», e io le provai tutte, la libertà, la democrazia, la rava, la fava, ma a «il lavoro» non ci sarei arrivata neanche in cento tentativi (anche quella volta fui miracolosamente promossa, il che contribuì al perpetuarsi del mio stato di ciuccia arrogante: più di trent’anni dopo, «fondata sul lavoro» continua a sembrarmi un’insensatezza).
Quella volta che dissi all’assistente del professore di storia del cinema che i russi se li guardava lui, e lui mi disse che mi bocciava a malincuore perché ero l’unica lì dentro a conoscere Eva contro Eva (che però non era in programma; i russi continuo a non averli visti).
Quella volta che un giornale per pagarmi meno mi assunse, e quindi dovetti fare l’esame da giornalista, e quando mi bocciarono allo scritto tutti mi dicevano che dovevo chiedere di vedere il compito, e io mi rifiutai essendo vent’anni più vecchia di quand’ero già ciuccia e piena d’autostima, e quindi non ho mai saputo in cosa la mia prosa fosse stata considerata indegna del prestigioso tesserino, ma credo avesse ragione quell’amico che mi disse «è colpa tua che non avrai scritto nella loro lingua, non ci avrai messo neanche un “si leva l’alto monito del Colle”».
Tutto questo per dire che io la studentessa campana la capisco da tutti i punti di vista. Sia perché ho un brutto rapporto con gli esami; sia perché nella vita ho conosciuto quasi solo medici incapaci (ho conosciuto quasi solo incapaci in tutti i mestieri, per la precisione), e non capisco perché proprio da lei si debba invece pretendere competenza; sia perché sono del Novecento, quel tempo in cui se eri ciuccia nessuno ti filmava sputtanandoti di fronte all’universo.
Sono anche d’una generazione che si valuta da ciò che pensa della pedagogia. Ai nostri tempi non c’erano già più le maestre che ti davano le bacchettate sulle mani di cui cianciavano i nostri genitori, ma non c’erano ancora i genitori che al primo brutto voto aggrediscono maestre o professori che non si devono permettere di traumatizzare i loro bambini – quei genitori immaginari di cui cianciamo noi. Almeno fino a ieri.
Fino a ieri, genitori invadenti e apprensivi – esattamente come evasori fiscali, elettori di Forza Italia, raccomandati, parcheggiatori in terza fila, e altre impresentabilità – erano sempre gli altri. Tutti i genitori che conosco, nessuno escluso, raccontano la terrificante umanità delle chat di classe. Raccontano gli altri genitori come coloro per cui i figli son sempre geni, sempre vessati, sempre da tutelare da un mondo malvagio che ne inibisce la grandezza e la creatività. Ogni volta mi chiedo dove siano quelli che in quelle chat si dimostrano così ridicoli. Possibile io non ne conosca neanche uno? Se li inventano per apparire migliori a confronto?
Poi ieri è arrivata la nostra salvezza quotidiana, quella che ogni giorno ci dona l’internet: qualcuno più imbecille di noi guardando il quale considerare ridimensionata la nostra imbecillità.
Ieri erano addirittura in tre.
Il docente di non so bene quale corso della facoltà di medicina, che parla in dialetto giacché il declino delle élite non si mostra solo quando un professore non trova una parola più a fuoco di «scrofa» per indicare dissenso politico, ma anche quando pensa che la dizione sia una specializzazione per femminucce.
La studentessa del sesto anno (fitto mistero su come abbia fatto a superare i primi cinque) di medicina, che non sa come funzionano le cellule nei vivi e nei morti (una cosa che ai miei tempi si studiava in scienze alle medie inferiori, e lo dico al lordo della mia insuperata ciucciaggine), e frigna «è mai possibile che io ogni volta devo essere mortificata» (oltre che con le cellule, non va d’accordo neanche coi congiuntivi).
Ma soprattutto la mamma. La mamma che interviene, essendo evidentemente rimasta in agguato fuori scena ma nella stessa stanza, ad assistere all’esame della sua piccina, piccina al sesto anno d’università, con l’apprensione con cui ne guardava i saggi di danza alle elementari («Io sono la mamma e devo intervenire», insiste l’Anna Magnani che ci possiamo permettere).
La mamma che si costerna s’indigna s’impegna, ma col cazzo che getta la spugna: pretende dal professore per la piccina una seconda possibilità, una domanda di riserva, un’occasione in cui ella possa dimostrare che sì, non sa bene come funzionino le cellule, ma non per questo le deve essere impedita la possibilità d’aprirmi con un bisturi («Mia figlia è esaurita», la giustifica la genitrice come la piccina avesse stonato a un provino di Non è la Rai; la piccina cerca invano di cacciarla: ci vuole un MeToo per arginare i genitori contemporanei, assai più pericolosi degli uomini maiali).
La mamma che conosce la società dello spettacolo e minaccia «ho registrato tutto quello che ha fatto», userò l’era della riproducibilità contro di te e saranno cazzi, caro il mio professore dialettale. La mamma che, come finale d’arringa, dice «Io sono anche un medico», e quindi chi meglio di me sa che qualunque ciuccio che non vincerebbe neanche una partita all’Allegro chirurgo ha il diritto di mettersi un camice e dire a dei disgraziati che non ne conoscono la ciuccità come curarsi.
Ah, se quella mamma ce l’avessi avuta io al Meloncello, a quest’ora avrei una patente. Certo, non sarei in grado di guidare senza fare morti e feriti, ma avrei visto tutelato il diritto più importante del ventunesimo secolo: quello a essere trattata come una porcellana. Ciuccia, ma non mortificata. Sputtanata sull’internet, ma non disapprovata da chi per mestiere dovrebbe insegnarmi cose.