La strategia politica degli Stati Uniti in Medio Oriente dovrebbe partire dal basso, dalla costruzione di un rapporto privilegiato con le persone – soprattutto i giovani e le donne – che abitano in quell’area troppo spesso funestata da conflitti e instabilità. È una raccomandazione apparentemente lineare, semplice, quasi semplicistica. Eppure potrebbe essere il punto di partenza di un’azione politica efficace da parte di Washington nel quadrante mediorientale: è una delle principali linee guida di un rapporto stilato non più tardi di cinque anni fa dalla Middle East Strategy Task Force.
Il documento finale era destinato al successore di Barack Obama: si tratta di un report bipartisan prodotto prima delle elezioni del 2016, quelle che avrebbero portato alla Casa Bianca Donald Trump.
La task force guidata da Madeleine Albright e Stephen Hadley aveva il compito di tracciare i contorni di un nuovo approccio americano al Medio Oriente, la base di una strategia che potesse andare oltre i soliti consigli che di utilità pratica ne hanno poca, come i classici «prendere una decisione ferma» o «rendere assolutamente trasparenti le proprie intenzioni».
Il rapporto della Middle East Strategy Task Force è stato rievocato da Frederic C. Hof – già ambasciatore e consigliere speciale per la transizione in Siria durante l’amministrazione Obama – in un recente articolo pubblicato su New Lines. L’intenzione di Hof è quella di dare all’amministrazione Biden alcuni suggerimenti, mettendo sul tavolo competenze e conoscenze costruite in diversi anni di esperienza.
Il punto di partenza di Hof è una considerazione molto pragmatica: «Realisticamente nessun regime autoritario di quella regione rischierebbe di cedere parte del suo potere per provare a valorizzare il potenziale dei suoi cittadini. Cioè, sotto forma di domanda, di fronte alla scelta di governare in modo assoluto attraverso il terrore o governare solo dietro il consenso dei governati quanti sceglierebbero quest’ultima opzione?».
È per questo motivo che, si legge nell’articolo, «il capitale umano del Medio Oriente si potrebbe rivelare un tesoro di valore incalcolabile o una pericolosa fossa di serpenti scavata dalle élite politiche di quell’area, che non rispondono alle categorie politiche dell’Occidente, e hanno altri metodi di gestione del rapporto con i cittadini e con gli altri Stati». E se negli ultimi anni il rapporto della Middle East Strategy Task Force firmato da Albright e Hadley è stato ampiamente ignorato da Donald Trump e dalla sua amministrazione, adesso potrebbe tornare uno strumento utile per l’ex vice di Barack Obama.
Il documento fornisce indicazioni sui rapporti israelo-palestinesi; analisi mirate sul terrorismo dello Stato islamico e di al Qaeda; informazioni sul regime iraniano e Hezbollah. E ci sono raccomandazioni specifiche relative a ogni Paese, dagli Stati nordafricani a quelli della penisola araba. «Ma il focus, o la scommessa, va fatto su un gruppo demografico caratterizzato per lo più da giovani e donne desiderosi di istruzione, disposti a lavorare sodo e costruire il loro futuro», scrive Hof, «il modo migliore per far capire all’élite politica araba che l’eccessiva centralizzazione e la corruzione incontrollata degli ultimi anni sono stati dei regali agli aspiranti estremisti; mentre la popolazione più giovane è rimasta a lungo un bene inutilizzato di valore incalcolabile, che però se non adeguatamente coltivato può diventare invece un serbatoio per alternative estremiste a un governo inefficace».
Per stilare il loro report, i membri della Middle East Strategy Task Force hanno dialogato con uomini d’affari, educatori, leader politici e giovani in ogni Stato di quell’area. La conclusione dello studio è un’indicazione chiarissima: sebbene la regione non sia stata condannata al caos, all’estremismo e all’instabilità dal trattato Sykes-Picot – un accordo con cui gli Stati Uniti e i Paesi europei si dividevano il Medio Oriente dopo il disfacimento dell’Impero Ottomano – o da qualche altro deus ex machina, l’illegittimità politica di molti regimi nel mondo arabo ha reso l’intera regione particolarmente vulnerabile al terrorismo, e quel caos si sta rivelando ancora una volta una grave minaccia alla sicurezza per gli Stati Uniti, per i cittadini americani e per i cittadini degli alleati americani in tutto il mondo.
«Così la strategia da mettere in campo in quella regione si costruisce a partire da una partnership tra leader occidentali e leader arabi che, guidati dagli Stati Uniti, siano disposti a fare alcune riforme chiave volte a liberare il potenziale della gioventù araba: dall’istruzione all’abolizione delle leggi anti-imprenditoriali, fino all’allentamento della repressione politica», scrive Hof.
Sebbene Trump abbia colpevolmente ignorato un rapporto bipartisan che a Washington aveva ricevuto molti elogi, l’autore dell’articolo ricorda anche alcuni piccoli successi in politica estera dell’ex presidente: «Complessivamente Trump ha minato gli interessi di sicurezza americani comunicando ostilità verso l’Islam, ma quanto meno ha avuto il merito di opporsi esplicitamente a chi governa nella Repubblica islamica dell’Iran, una cospirazione criminale che sopprime una base di popolazione talentuosa e intraprendente mentre estende la sua corruzione illegale in Iraq, Siria, Libano e Yemen».
Adesso la palla passa a Joe Biden, e ci sono decine di interrogativi a cui dovrà rispondere la nuova amministrazione. Ad esempio: dovrebbe continuare a contrastare militarmente lo Stato Islamico in Iraq e nella Siria orientale? Dovrebbe stare in disparte mentre il presidente siriano Bashar al-Assad – con l’aiuto di Russia e Iran – intraprende una guerra civile con omicidi di massa contro milioni di persone? Dovrebbe muoversi con decisione per porre fine all’indicibile abominio dello Yemen? Dovrebbe condurre diplomaticamente alla ricerca della pace in Libia? E ce ne sarebbero tanti altri, dal rapporto con la Turchia alla Tunisia, dal ruolo nella Nato al rapporto con la dinastia dei Saud, fino al dossier libico e quello yemenita.
Di fronte a queste sfide Hof propone i suoi consigli all’amministrazione Biden: «Per circa 150 anni gli Stati Uniti hanno beneficiato degli immigrati arabi che si lasciavano alle spalle la violenta e disfunzionale vita in Paesi governati da leader che rubavano tutto ciò che era a portata di mano e punivano coloro che resistevano al furto. Allora da un lato dovremmo dare il benvenuto in America a coloro che hanno la spinta e la determinazione a lasciarsi alle spalle quella vita, dall’altro dovremmo raggiungere i giovani del mondo arabo con scambi di studenti e docenti e rinnovati investimenti nell’istruzione americana – formale e professionale – in tutto il mondo arabo. E sì, dovremmo accogliere come rifugiati coloro che sono fuggiti dalla furia omicida dei loro governanti».
Somiglia a una strategia di smart power, quello che Joseph Nye nel 2003 teorizzò come una combinazione di hard power – potere coercitivo espresso attraverso la forza militare o economica per influenzare un altro soggetto – e soft power, cioè la capacità di influenzare altri soggetti politici con strumenti non militari né economici, quindi un vero e proprio potere di attrazione basato su diplomazia, cultura e immagine.
«Un Medio Oriente governato illegittimamente da criminali violenti – conclude Hof – produrrà sempre minacce alla sicurezza per gli americani, specialmente se il governo degli Stati Uniti è visto nella regione come un problema. I giovani arabi, se messi in condizione, possono aiutare una regione in difficoltà a liberarsi, finalmente, dall’eredità dell’Impero Ottomano e dalla minaccia dell’estremismo violento. L’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, dovrebbe impegnarsi per incoraggiare un tale responsabilizzazione per assicurare ai giovani arabi la possibilità di costruire un futuro di prosperità e dignità».