Si infiamma il dibattito sulla presenza femminile nelle istituzioni e si stilano classifiche, talvolta surreali, di comportamenti politicamente corretti al riguardo da parte dei principali soggetti politici, misurati più che sui contenuti di cui sarebbero portatori o sulle competenze da offrire alla nuova compagine governativa, su una frusta polemica che infastidisce, ad avviso chi scrive, le migliaia di donne intelligenti ed impegnate, da sempre riferimento in ogni settore della società civile, delle professioni, dei partiti.
Donne straordinarie hanno illustrato l’Italia – e continuano a farlo – nella cultura, nella scienza nell’imprenditoria, nelle più alte istituzioni come nel variegato mondo del volontariato in ogni settore. L’elenco è troppo lungo per essere qui riportato ma credo sia ben presente nella mente e nel cuore di coloro che ne hanno incontrato le tracce profondamente impresse nella storia e nel costume. Sarà sufficiente ricordare le massime espressioni del presente e del recente passato: Liliana Segre, Rita Levi Montalcini, Dacia Maraini, Oriana Fallaci, Marisa Bellisario. Tutte ricoprirono trasversalmente cariche di vertice alla Camera dei Deputati, alla Corte Costituzionale, nei governi, nella CGIL, in Confindustria, nelle università, in magistratura.
Attualmente sono di genere femminile la Presidente del Senato, seconda carica dello Stato, la segretaria generale della CISL, le sindache di Roma e di Torino, le nuove ministre della Giustizia, dell’Interno e della Famiglia e tantissime altre su cui si darà a tempo debito il giudizio politico amministrativo, ma che sul piano sociale rappresentano un’affermazione di genere abbastanza in linea con i Paesi dell’Unione, ove si consideri che in molti di essi, quali ad esempio i paesi scandinavi, le donne hanno ottenuto il diritto di voto già nei primi anni del ’900, quasi mezzo secolo prima che in Italia. Un gap che ovviamente fa la differenza ma che non precluderà nei prossimi anni i traguardi, giustamente più ambiti, della presidenza della Repubblica e del consiglio dei ministri – prospettive tuttavia aperte a breve scadenza e affidate a quell’ulteriore “transizione” a cui, insieme a tante altre, i partiti sono chiamati con urgenza.
Nessun ostacolo legislativo o normativo nella Pubblica amministrazione è formalmente opposto a tale riequilibrio: nei consigli di amministrazione e nel management di ogni settore le donne sono in crescita e tenute in grande considerazione. Anche la società si è molto evoluta in tal senso già da decenni e le giovani e giovanissime generazioni mostrano sin dalla più tenera età una notevole inclinazione a superare gli antichi stereotipi.
Il passo decisivo è ora il ripensamento dei tempi e delle modalità organizzative che permettano di rimuovere gli ostacoli frapposti alla libera scelta della maternità, mentre la cura di genitori anziani e di figli piccoli ha visto aumentare, lentamente ma gradualmente la presenza maschile che andrà presto incrementata anche sul piano del diritto del lavoro.
Chi scrive ha avuto modo di adoperarsi negli anni ’90, spesso in contrasto con le organizzazioni sindacali, nell’ambito della Direzione del Personale, per la promozione e la costituzione della Commissione Pari Opportunità in un Istituto di Credito di diritto pubblico meridionale, utilizzando tutte le provvidenze previste al riguardo dalla legislazione del tempo e volte a porre in essere efficaci Azioni Positive. Un’esperienza entusiasmante che mi fece entrare in contatto con le madri nobili del tema quali Tina Anselmi, le sociologhe Pina Madami, Chiara Saraceno, Clara Bassanini e il mondo affascinante della rivista Pari & Dispari, nome che oggi connota la specifica collana edita da Franco Angeli. Furono frequenti trasferte a Milano e a Roma che mi introdussero in un mondo fecondo e ricco di idee, poi tramutatesi in provvedimenti legislativi di notevole rilievo e in concrete realizzazioni a Palermo. Ma questa è un’altra storia.
Altra cosa è la dimensione affettivo/sentimentale che registra ancora una drammatica arretratezza che non conosce differenze territoriali in Italia – al sesto posto in Europa dove capofila è la civilissima Germania – e colpisce famiglie di ceti medi e popolari con il flagello del femminicidio, derivante in una certa misura dalle condizioni economiche, ma soprattutto, da antiche pulsioni ancestrali e da residui di atteggiamenti culturali che neanche l’educazione, peraltro molto attenta al tema da alcuni anni nelle scuole italiane, non riesce sufficientemente a contenere.
Molto toccherebbe alle famiglie anche se, come insiste spesso Paolo Crepet, il loro potere di influenza sui figli in ogni campo è in forte e costante diminuzione. Ma anche questa è un’altra storia. Mentre nel Partito Democratico infuria la polemica sui nomi indicati al Presidente incaricato per l’attribuzione dei ministeri “politici” e sul conseguente esito delle designazioni solo al maschile, negli altri partiti che sorreggeranno la maggioranza sembra spirare un soffio di genere che va rimarcato: Forza Italia può esporre due donne su tre ministri, Italia Viva una su una, la Lega una su tre, Movimento Cinque stelle una su quattro. E di tutta evidenza che nelle fila dei viceministri e dei sottosegretari si provvederà a incrementare la presenza femminile, ma intanto il primo segnale è stato registrato e ciascuna forza politica ne sta rispondendo alla propria base sensibile al tema.
Sul versante opposto, l’unica forza di opposizione – almeno per ora – Fratelli d’Italia è stata fondata ed è guidata da Giorgia Meloni, classe 1977, già giovanissima ministra nel governo Berlusconi IV fino al 2011, durante la XVI legislatura (2008-2013) e protagonista del crescente successo del proprio partito che, stando ai sondaggi, pare veleggiare verso il 16%, superando il Movimento Cinque Stelle e tallonando il Partito Democratico. Alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, il partito si presentò in coalizione con Forza Italia, Lega Nord e Noi con l’Italia – UDC, ottenendo il 4,35% e 32 seggi alla Camera e il 4,26%, con 18 seggi al Senato; governa in coalizione nelle quattordici giunte regionali di centro destra ed ha espresso direttamente il presidente delle Marche.
È considerato l’unico partito italiano accreditato di una crescita costante. Interessante al riguardo il saggio di Matteo Luca Andriola, tra i giovani storici e politologi italiani forse il più preparato studioso della destra radicale in Italia e nel nostro continente, autore di un libro, “La Nuova Destra in Europa”, ormai tra le bussole per chi voglia approcciarsi al tema.
Poiché nulla mi è più lontano di quel mondo, non mi avventurerò in analisi sommarie e improvvisate ma non posso non rilevare come la leadership della Meloni appaia incontrastata e immaginare che stia allevando anche un vivaio di coetanee e di altre giovani donne che potrebbero rappresentare un certo appeal alle prossime elezioni. Devo prendere atto che in un partito che si dichiara patriottico, sovranista e soprattutto tradizionalista e che penso non manchi di esponenti maschili di rilievo – anche dopo le dimissioni sine ira et studio di Guido Crosetto stimato trasversalmente – il profilo di Giorgia Meloni spicchi per prestigio personale e, può piacere o meno, per una sostanziale coerenza mantenuta sin dalla fondazione del soggetto politico.
Di Giorgia Meloni mi ha colpito l’analogia con un personaggio classico immaginato da Virgilio nell’Eneide, il poema laudativo nei confronti di Augusto a cui viene così fornita un’ascendenza fatta risalire all’eroe troiano di cui ho scritto in più occasioni, la vergine Camilla. Ne riassumerò la storia in modo sintetico.
Il contesto è il Lazio abitato dai popoli italici aborigeni in quanto preesistenti alla fondazione di Roma (753 a.C). Camilla è figlia di Casmilla e di Metabo, tiranno di Privernum, uno dei principali centri della terra dei Volsci. Quando il padre viene detronizzato a causa del duro governo, porta con sé Camilla ancora in fasce. Durante la fuga, inseguito da bande di concittadini, Metabo giunge sulla riva del fiume Amaseno che per le piogge abbondanti si era gonfiato al punto da non poter essere guadato. Il re allora, avvolge la piccola Camilla con la corteccia di un albero, la lega alla lancia e scaglia entrambe sull’altra riva del fiume.
Raggiunto dagli avversari, si tuffa in acqua e attraversa il fiume a nuoto. La leggenda narra che Camilla sia arrivata sull’altra sponda del fiume Amaseno sana e salva perché il padre l’aveva consacrata alla dea Diana.
Dopo la fuga da Priverno, nessuna città accoglie Metabo né egli, a causa dell’immensa fierezza, si piega a chiedere aiuto. La piccola Camilla, pertanto, cresce con il padre nei boschi, tra animali selvaggi e pastori, nutrita di latte di cavalle selvagge. Appena comincia a muovere i primi passi, Metabo le dona arco e frecce e le insegna ad usarli. Camilla non indossa vestiti, ma solo pelli di tigre e ha un fisico perfetto: così veloce da superare il vento nella sua mascolinità, ma al tempo stesso donna di grande bellezza.
Camilla è una guerriera, cresce addestrata sin da bambina all’uso delle armi, al combattimento e alle tecniche militari. Addirittura si narrava che si fosse fatto ablare un seno per essere più agile nell’uso dell’arco. Sembra provare amore solo per le armi dopo aver giurato verginità eterna come Diana, la dea alla quale il padre l’aveva affidata quando era ancora bambina. Questa fama di guerriera invincibile nel tempo porta Camilla – ormai cresciuta – a guidare una schiera di cavalieri Volsci e un’armata di fanti con armature di bronzo; al suo seguito ha anche altre donne guerriere, tra cui la fedele Acca.
Camilla non sa filare e non conosce i lavori femminili, ma è abituata a sopportare fin da ragazza i duri scontri ed è velocissima nella corsa, tanto da superare i venti. La ammirano le madri e tutta la gioventù riversata dalle case e dai campi mentre avanza in corteo alla testa della sua schiera: un regale mantello le copre le spalle, un diadema d’oro le orna la chioma, porta con disinvoltura la faretra licia e, come pastorale, un’asta di mirto, sormontata da una punta.
Quando Enea giunge nel Lazio per scontrarsi con i Rutuli, Camilla soccorre Turno alla testa della cavalleria dei Volsci e di uno stuolo di fanti. La sua figura incute spavento e la sua baldanza è senza pari. Turno, però, pur ammirando il nobile gesto ed il coraggio di Camilla, decide che la sua alleata affronti soltanto la pericolosa cavalleria tirrenica, riservando per sé il compito di contrastare e battere Enea.
Gli atti di valore di Camilla non si contano: fa strage di nemici, si lancia in ogni mischia, insegue e colpisce a morte ogni avversario che vede, affronta ogni pericolo non accorgendosi del giovane etrusco Arunte che la segue nella battaglia per cercare di sorprenderla. Camilla crea lo scompiglio nei pur forti Etruschi e mette in fuga le schiere nemiche al punto che deve intervenire il re Tarconte per fermare i suoi ormai in rotta. Arunte coglie l’occasione: l’eroina, avida di ricca preda, scorge il frigio Cloreo, che in patria era sacerdote di Cibele; questi sfoggia un’armatura abbagliante d’oro e porpora, coperto da una clamide color del croco mentre scaglia frecce dalle retrovie col suo arco cretese. Camilla si mette al suo inseguimento e dimentica tutto il resto accecata dalla bramosia di impossessarsi delle sue armi. Allora il giovane etrusco, nascosto tra la boscaglia e invisibile all’eroina, le scaglia alle spalle una lancia guidata dal volere divino di Apollo che la ferisce a morte trafiggendole il costato e che fuoriesce appena sotto al seno.
Accorrono trepidanti le sue compagne per soccorrerla: Camilla si strappa la lancia, ma la punta resta incastrata tra le costole. Ormai morente, si sente venir meno, cade e affida ad Acca, la compagna più fedele, un ultimo messaggio: informare Turno della sua morte affinché entri in battaglia e difenda le terre dai Troiani. Alla morte di Camilla, Arunte cerca di fuggire, ma sarà ucciso da una freccia di Opi, ninfa del seguito di Diana, per volere della dea stessa. La morte della vergine Camilla sarà il preludio della sconfitta dei Rutuli e degli italici tutti che si erano stanziati nell’Italia meridionale. Turno, anche se riuscirà a sconfiggere moltissimi nemici, sarà ucciso da Enea nel duello finale che conclude il poema.
Nonostante il carattere apologetico, viene voglia di rileggere l’Eneide e di rivedere alcune posizioni su Virgilio, autore anche di Bucoliche e Georgiche, tanto di tendenza in questi mesi di trasversali folgorazioni green sulla solita via di Damasco. “Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena;nos patriae finis et dulcia linquimus arva,nos patriam fugimus; …”
In tempi di argomentazioni molto meno classiche sul tema della parità/disparità uomo donna e di rivendicazione di ulteriori spazi nella vita pubblica e nelle aziende, a me è parsa una bella storia che a molti ricorderà gli studi liceali. Una storia italiana che sentiamo più vicina del mito di Antiope, regina delle Amazzoni, narrato da Pausania secondo il quale si innamorò di Teseo – il tombeur de femmes più attivo della mitologia, altro che quel pirla di Paride (di cui ho scritto) -, tradì le Amazzoni di sua spontanea volontà e fu, in seguito, uccisa da Molpadia durante l’attacco delle Amazzoni contro Atene.
Camilla, invece, è più ruspante: sembra di vederla tra i boschi di quel Lazio che ho percorso a piedi da Rieti verso Terni tra laghi e cascate che non hanno nulla da invidiare a quelli umbri. Pare di sentirla parlare in quel romanesco, tanto distante dall’aulica lingua latina, vicino piuttosto all’etrusco e che sa di vino dei Castelli, di abbacchio, di pasta cacio e pepe.
Nella scelta di verginità che Virgilio le attribuisce, Camilla rivendica e realizza l’indipendenza rispetto al maschio dominante con cui si rapporta da pari a pari e che spesso sovrasta per astuzia e strategia. La sua amicizia con Acca – il cui nome ritroveremo nella mitologia romana unito a quello di Laurentia, la moglie del pastore Faustolo che avrebbe allattato Romolo e Remo e che in quanto ex prostituta era chiamata lupa (da cui lupanare) come ben riprese Giovanni Verga nel noto romanzo scritto nel 1880 – sa più di sodalizio tra commilitoni che di atmosfere saffiche, di pacche sulle spalle piuttosto che di carezze, di fatiche negli allenamenti piuttosto che amorose. Un’altra Camilla, parimenti decisa, ha conquistato un regno sul cui trono però, forse, non siederà mai. Sarà assonanza, ma un’altra ancora – e qui l’etimologia del nome è indù – sta scaldando i muscoli per la Casa Bianca del dopo Biden. C’è qualcosa di potente in questo nome che pure appare tanto delicato.
In una delle prime edizioni del Festival Filosofia nata dalla fervida creatività degli amministratori di Modena, Carpi e Sassuolo, credo fosse la seconda delle attuali venti, mi accadde, per puro caso, di cenare con Luce Irigary, filosofa, psicoanalista, linguista e accademica femminista belga, direttrice di ricerca al Centre national de la recherche scientifique (CNRS) la preminente e più grande organizzazione di ricerca pubblica in Francia con sede a Parigi. Come per altre pensatrici belghe e francesi degli anni ’70, il legame con il femminismo è stato un punto di svolta nel suo percorso. Il suo pensiero si è sviluppato in un vivo rapporto di scambio con la politica delle donne. Tra le relatrici di quell’edizione del Festival, aveva avuto un fiero battibecco non ricordo più se con Remo Bodei o con Giacomo Marramao finito quasi in rissa. Bazzecole per chi come lei, anni prima, aveva rotto con Jaques Lacan ed era stata espulsa dall’Università di Vinceness.
Risoluta anche nei rapporti personali, a motivo dello scontro del pomeriggio, aveva preferito non andare alla cena dei relatori della giornata, preferendo restare in albergo anche se a me raccontò di essere stata volutamente “piantata” dagli organizzatori per evitare scena imbarazzanti.
Inevitabile fu l’abbordaggio, intellettuale si badi, con una settantenne dal fascino straordinario, anche se non troppo lontano da quello di altre madri nobili della questione femminile che ho ricordato in apertura di questo articolo, ma indubbiamente più aggressivo ed intransigente.
Ci incontrammo al bar, ci presentammo e bevemmo pastis, la siculo/araba acqua ed anice in proporzioni invertite. La discussione proseguì nel ristorante dell’albergo comune, un dignitoso tre stelle con cucina emiliana da dieci, almeno. Parlammo di Erica Jung e di Simone de Beauvoir, ma anche di Wilhelm Reich e le raccontai l’esperienza con l’Osservatorio aziendale per le Pari Opportunità da me promosso e già citato. Ovviamente non fu d’accordo su nulla e ciò le diede lo spunto per sintetizzare a mio beneficio il proprio pensiero sulla “differenza” espresso nei tanti libri, da “Speculum” del 1975 a “Etica della differenza sessuale” del 1990, a cui negli anni successivi sarebbero seguiti molti altri saggi, fino al più recente “Nascere. Genesi di un nuovo essere umano” del 2019 pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri. Qui una buona bibliografia.
Insomma, una vergine Camilla in salsa all’aglio con cui al termine della serata scambiammo i biglietti da visita. Mesi dopo, ricevetti una copia di “Speculum” con dedica. Mi piacerebbe consultare Luce Irigaray circa le polemiche di questi giorni sulle donne nella politica italiana. Chissà che non lo faccia, prima o poi; comunque, all’ormai novantenne ape regina, auguro ogni bene.
In chiusura, una breve riflessione su alcuni boatos che hanno a che fare con l’uscita di Alessandro Di Battista dal Movimento Cinque Stelle e secondo i quali il Dioscuro minore potrebbe trovarsi con le non poche truppe di cui dispone al tavolo comune dell’opposizione insieme a Giorgia Meloni. In fondo, come scrissi alcuni mesi fa, per lui sarebbe un po’ come tornare a casa.
Turno & Camilla, a Virgilio potrebbe piacere. D’altronde, non è forse questo il tempo delle più ardite transizioni?