C’è qualcosa di nuovo che potrebbe entrare in contraddizione con la voglia di bipolarismo suggellata dall’avvento di Enrico Letta alla guida del Pd e a suo modo caldeggiata da Matteo Salvini: ed è il fattore D non come scelta tecnica ma come opzione politica. L’entusiasmo che ieri ha contagiato l’élite politico-giornalistica di Twitter (per quello che vale) dopo la conferenza stampa di Mario Draghi può essere, chissà, l’anticipazione di una draghimania a livello più generale, di massa, presso un’opinione pubblica che altro non chiede che competenza e serietà prendano finalmente il posto di politicismi e tattichette da semiprofessionisti della politica tipiche del contismo come incarnazione 2.0 del trasformismo ottocentesco.
In effetti ieri abbiamo assistito per la seconda volta a una conferenza stampa a palazzo Chigi nella quale il nuovo presidente del Consiglio ha fatto scolorire il ricordo di quello precedente, che nella memoria appare come un consigliere provinciale rispetto a un capo di Stato
Draghi ha fornito l’esatto quadro della situazione della lotta al Covid, spiegato cosa intende fare (il segnale dell’apertura delle scuole inferiori) e anche volato alto sui cieli della politica internazionale. In cinque minuti, per esempio, il presidente del Consiglio ha riferito cosa ha detto Joe Biden al vertice europeo, spiegando in parole semplici in quale rapporto la nuova amministrazione americana si ponga rispetto alla Ue, unico partner, Cina e Russia: una lezioncina di poche frasi per disegnare il quadro internazionale. Solo uno che abbia in mano le coordinate della politica mondiale sa spiegare cose di questa complessità. Altro che tecnico: il presidente italiano, come ha segnalato Pierluigi Castagnetti, si candida a diventare, dato che Angela Merkel lascerà a settembre, il punto il leader dell’Unione europea.
E se poi Draghi riuscirà davvero a trarre il Paese fuori dalla pandemia, assestare l’Italia su un binario virtuoso di concretezza e ripresa economica, chi potrà contrastare un consenso che, con quelle premesse, potrebbe essere larghissimo? Attenzione, non si sta parlando qui di un partito di Draghi ma di un fenomeno che potrebbe essere persino inedito che rovescerebbe il canone tradizionale in base al quale si fa un partito per puntare al consenso: qui sarebbe paradossalmente il contrario, il consenso in quanto tale come forza d’urto per cambiare il sistema.
Chi ipotizza alle prossime elezioni uno scontro bipolare Letta-Salvini (o in subordine Conte-Salvini, se l’operazione di addomesticamento dei grillini da parte del Pd dovesse fallire) dovrà fare i conti con una corrente politica che spingerà per la prosecuzione della presidenza di Mario Draghi.
Si sta parlando qui di un processo che ha tempi lunghi e che il diretto interessato, che ha ben altri pensieri nella sua testa, nemmeno contempla. Ma c’è una forza delle cose – espressione dalemiana sempre valida – che può persino aggirare la questione del Quirinale, nel senso che potrebbe crescere l’ipotesi del prolungamento di anno del settennato di Sergio Mattarella per consentire all’ex presidente della Banca centrale europea, naturale candidato al Colle, di restare alla guida del governo fino alla scadenza della legislatura (2023) e poi decidere il da farsi.
A quel punto bisognerà vedere in quali condizioni saranno i partiti e il loro rapporto con l’opinione pubblica. Ma intanto il problema di un dualismo – non la chiamiamo rivalità – fra i due partiti maggiori, Lega e Pd, e il presidente del Consiglio è una questione aperta: più cresce Draghi nella considerazione dell’opinione pubblica più arretrano Letta e Salvini come ideali capi del governo.
Dunque, il tema totalmente inatteso di questo scorcio di legislatura è sul come i principali partiti si rapporteranno al fattore D una volta avvertito il rischio di essere insediati dal crescente consenso del premier. Ma d’altra parte non possono neppure (il discorso vale per il Pd) tentare di mettere il cappello sul draghismo: non è semplice. Per Matteo Salvini, il presidente del Consiglio potrebbe essere politicamente letale; per Enrico Letta, Draghi è un’opportunità. Ma può diventare anche un problema.