Oltre il binomio Stato-MercatoPerché il futuro del Paese passa per il rilancio dell’economia sociale

È un settore duttile, capace di individuare bisogni e opportunità e di trasformarli in interventi organizzati e a basso rischio. Ma per cogliere tutto il suo potenziale occorre renderla centrale nei piani per la ripresa

Fotografia di Liana Mikah, da Unsplash

Nelle situazioni di incertezza radicale tipiche dei momenti di crisi sono le idee (più che le istituzioni o le organizzazioni) a orientare il cambiamento.

Idee in grado di misurarsi con trasformazioni economiche e sociali già in atto da tempo e che la pandemia ha accelerato. Tra queste idee, una visione dei rapporti tra pubblico e privato che si discosti dai binari di una divisione dei compiti in cui il bene comune è responsabilità esclusiva dello Stato e l’interesse generale per definizione non può essere perseguito da organizzazioni private.

L’economia sociale smentisce questa dicotomia e la sua funzione andrebbe presa sul serio in una prospettiva di ricostruzione del Paese.

Malgrado la sfiducia nella possibilità di governare la complessità del nostro tempo con le regole del secolo scorso – che ha minato le forze politiche riformiste e moderate, contribuendo alla crescita di populismi e nazionalismi – ci troviamo infatti di fronte al paradosso del ritorno in primo piano dell’azione pubblica, con la sua innegabile capacità di mobilitare centinaia di miliardi per salvare aziende e posti di lavoro.

Ma se Stato e poteri pubblici sono tornati a giocare un ruolo fondamentale, l’efficacia della loro azione non può prescindere da altri soggetti.

In particolare, per una prospettiva di vera ripresa e resilienza è necessario abbandonare lo schema semplicistico del binomio Stato-mercato, per dare spazio anche ad altre forme di attività economica che uniscono l’autonomia del privato con il perseguimento di interessi pubblici o generali.

Quello spazio, appunto, presidiato dalle organizzazioni dell’economia sociale, da sempre presenti ma che hanno assunto negli ultimi decenni, e in particolare durante la pandemia, una rilevanza crescente sia a garanzia della giustizia sociale e del benessere delle persone più fragili che per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione.

Fanno parte dell’economia sociale le associazioni, le organizzazioni di volontariato, le cooperative e le mutue, indipendentemente dal settore di attività in cui operano.

Più di recente si sono aggiunte le fondazioni e le imprese sociali. E l’Italia, svolgendo un importante ruolo di pioniere, ha probabilmente una delle legislazioni più complete e articolate. Alla quale corrisponde uno dei comparti più sviluppati a livello europeo: le organizzazioni sono quasi 380 mila, il valore aggiunto sfiora i 50 miliardi e gli occupati superano quota 1.500.000 (il 9,1% del totale dell’occupazione privata nazionale, autonomi inclusi). Inoltre, il settore può contare su oltre 5 milioni e mezzo di volontari.

Tuttavia, al di là dei numeri, quello che conta di più è la duttilità dell’economia sociale, la sua capacità di cogliere bisogni e opportunità e trasformarle in interventi organizzati, a basso rischio, grazie alla possibilità di aggregare risorse umane, materiali e finanziarie con forte allineamento rispetto ai fini.

In aggiunta ai settori in cui la sua azione è più consolidata, infatti, l’economia sociale è l’attore principale in molti ambiti di frontiera che saranno sempre più strategici negli anni a venire; settori fondamentali per garantire il benessere sociale, ma in cui l’azione dello Stato e quella dei soggetti del mercato presentano limiti insormontabili.

Nell’ambito del welfare, ad esempio, dove la sfida sarà quella di costruire sistemi integrati a livello locale in un contesto di bisogni crescenti (basti pensare all’invecchiamento della popolazione e ciò che ne consegue in termini di fabbisogno di cure e servizi) in cui non si può più fare affidamento solo sulle risorse pubbliche.

O nell’ambito, strettamente correlato, della riorganizzazione del sistema sanitario su base territoriale, che chiama in causa l’integrazione tra la sfera dei servizi sanitari e quella dei servizi sociali, soprattutto in ottica di prevenzione e di assistenza diffusa.

Ma il potenziale crescente dell’economia sociale va ben al di là del settore, pure strategico, dei servizi sociali e sanitari. Basti pensare alle sfide legate al futuro del lavoro, a fronte di contratti di lavoro precari e destrutturati, e l’impiego in interi comparti produttivi messi in discussione dall’avanzamento tecnologico e dall’intelligenza artificiale.

A fronte di queste sfide, l’economia sociale si presenta come una delle realtà più resilienti, dato che le sue organizzazioni operano nei settori a più alto contenuto relazionale, e quindi meno soggette alla sostituzione del lavoro umano da parte di macchine o algoritmi.

Non solo: sono le organizzazioni dell’economia sociale che stanno sviluppando già oggi le risposte più convincenti per tutelare i lavoratori nel mondo precario della gig economy, anche contrapponendo a quest’ultima modelli di organizzazione più equi, trasparenti e democratici del lavoro su piattaforma. Offrendo al contempo lavoro dignitoso nei settori, come quello dei servizi alla persona, in cui la domanda è crescente ma spesso a rischio di sfruttamento e informalità.

Altro ambito in cui l’economia sociale sta mostrando la sua capacità di dare risposte laddove gli altri attori non riescono è quello dello sviluppo locale, soprattutto per quanto riguarda il potenziale di crescita delle aree interne o a rischio di degrado. Il fenomeno delle cooperative di comunità, che sta prendendo sempre più piede nel nostro Paese, è in questo senso la punta di un più vasto iceberg fatto di iniziative di imprenditorialità diffusa su base comunitaria.

Per consentire all’economia sociale di realizzare questo suo potenziale di sviluppo, apportando così un contributo fondamentale al rilancio del Paese, occorre però toglierla dalla condizione di residualità in cui è stata confinata dalle politiche pubbliche.

In altre parole, occorre livellare il campo da gioco riconoscendo alle organizzazioni dell’economia sociale pari dignità e importanza.

Per questo serve un vero e proprio piano di azione per l’economia sociale, che prenda le mosse da un suo pieno riconoscimento e preveda un insieme di interventi che possano garantirne il rafforzamento e la crescita. A partire dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e dalla programmazione dei fondi strutturali per il periodo 2021-2027.

Un contributo a questo piano può venire dall’impegno di migliaia di organizzazioni che già operano nei vari contesti del nostro Paese. E dal lavoro di sintesi di centri di ricerca come Euricse, che al tema ha dedicato un position paper in discussione proprio in questi giorni.

Per il ruolo che già ricopre e per il suo potenziale di sviluppo, un rafforzamento dell’economia sociale è fondamentale per la ripresa economica e sociale del nostro Paese. Dimenticarsene non sarebbe una mossa vincente.