Parafrasando la commedia di Edward Albee, chi ha paura di Enrico Letta? In attesa che il diretto interessato sciolga la riserva – ha chiesto 48 ore per pensarci – si può provare, dando per scontato che accetterà, a capire il senso politico della sua scesa in campo alla guida del Pd.
La leadership di Letta, uomo di istintivo equilibrio, è vista con una certa apprensione da un po’ tutti i maggiorenti del partito ad eccezione di Dario Franceschini e, pare, di Paolo Gentiloni. Letta non è uomo di nessuna delle attuali filiere, gode di un prestigio indiscutibile viene reclamato dall’“esilio” parigino per salvare la baracca lasciata incustodita dall’abbandono umorale di Nicola Zingaretti.
Per tutto questo, Letta sarebbe (sarà) un segretario fortissimo, anche se gli verrà a mancare una legittimazione popolare, quella delle primarie, che infatti dovrebbe prima o poi mettere in agenda.
Letta è un riformista, un ulivista. Fu il più giovane ministro nel governo dell’Ulivo diretto da Romano Prodi, l’allievo di quel particolare segmento del cattolicesimo democratico particolarmente orgoglioso e culturalmente solido che ha in Nino Andreatta il punto di riferimento essenziale. Non è insomma un “democristiano” di tipo classico, di scuola, per dire, demitiana o di altro tipo, è uno che ha sempre guardato oltre le due grandi chiese, Dc e Pci, è un innovatore dal cuore antico.
In questo senso, pur avendo un bel sentire comune con il riformismo ex comunista (l’amicizia con Pier Luigi Bersani lo testimonia), Letta non è dunque uomo di quella che comunemente si definisce “Ditta”, intendendo quell’insieme di categorie, movenze, schemi politici e organizzativi che identificano, oggi come ieri, i dirigenti di provenienza diessina.
Questa componente, rivitalizzata nel biennio zingarettiano anche per reazione al quadriennio renziano, vuole sempre avere, per istinto oltre che per calcolo, il controllo del partito, ben accettando qualunque contributo ma appunto restando ben salda nella cabina di comando.
Lo spiegò tanti anni fa Massimo D’Alema dicendo che il Pd era come un aereo nuovo, c’è un’ala destra e un’ala sinistra ma l’importante appunto è chi pilota il velivolo. Sottinteso: noi. È quello che il teorico dell’Ulivo Arturo Parisi ha sempre rimproverato agli ex ds, di non riuscire a non pensarsi come ex qualcosa, di considerare la “mescolanza” una scorciatoia tattica e non un camminamento strategico.
Naturalmente in questi anni molte cose sono cambiate ma sotto la direzione di Zingaretti le cristallizzazioni in “famiglie” sono riemerse. Complice anche una voglia di rivincita verso quel renzismo che pretendeva di rottamare una storia che veniva da lontano, in questi due anni la squadra del segretario si è effettivamente impossessata delle leve di comando del partito (ma non dei gruppi parlamentari individuati come i killer di “Nicola”). Leve di comando ormai perdute con l’addio dell’ex segretario e che non torneranno più, se arriva Letta, nelle mani dei “sinistri”. Sono loro – non gli ex amici di Renzi – a dover aver paura di Letta.
Certamente il nuovo leader sarà molto attento a non fare come un elefante in una cristalleria. Non è come Matteo, è l’opposto. Ma politicamente la scelta di Letta non potrà che essere non un generico “appoggio” al governo Draghi ma l’assunzione piena della sua agenda e lo sforzo anzi di implementarne la ricchezza e di lavorare per il suo successo. La questione del M5s verrà in questo senso relativizzata: al centro dei pensieri di Letta ci sarà il governo del Paese, non Di Maio e nemmeno Conte. Ecco dunque, se le cose stanno così, che al di là delle diatribe su quando fare il congresso (che è una richiesta non certo lunare di Base riformista: in fondo il partito è dato al 16 percento, basterebbe questo per capire cosa ci si deve inventare) che a storcere il naso e a sbuffare senza far rumore saranno i Goffredo Bettini, i Peppe Provenzano, gli Emanuele Felice, forse lo stesso Andrea Orlando che vede sfumare la leadership dato che il congresso ci sarà chissà quando e che comunque vedrà “Enrico” stra-favorito.
Insomma, è proprio la sinistra che si è auto-cacciata dalla cabina di comando a stare sul chi vive rispetto leadership di Letta per le stesse ragioni per le quali mal tollera la premiership di Mario Draghi, il cui governo è vissuto come un tronco piazzato sui binari di un immaginario spostamento a sinistra. Letta, c’è da giurarci, legherà la sua segreteria al nuovo corso che si è aperto nella situazione italiana sapendo che la battaglia interna sarà su questo fronte.