Non si può dire che il post su facebook con cui Nicola Zingaretti ha annunciato le dimissioni dichiarando di vergognarsi del suo partito sia rimasto senza effetto. Al contrario, bisogna riconoscere che ha aperto un fervido dibattito. C’è ad esempio il capo sardina Mattia Santori che su Repubblica parla del Pd come di un «marchio tossico», dopo essere corso a rilanciare, scrive il quotidiano, la «Costituente di sinistra voluta da tanti, da Pier Luigi Bersani a Giuseppe Provenzano». E c’è persino Rocco Casalino, che in tv tesse l’elogio del segretario dimissionario, definendo i suoi avversari interni dei «cancri da estirpare».
È evidente però che il grido di dolore zingarettiano è tutto meno che un segnale di resa, dal momento in cui a Bruxelles l’eurodeputato Andrea Cozzolino raccoglie le firme per un’interrogazione con cui chiedere alla Commissione se la collaborazione della società di consulenza McKinsey con il ministero dell’Economia sia compatibile con la tutela degli interessi dell’Unione europea. Il Foglio ha elencato ieri tutte le società di consulenza, compresa la McKinsey, coinvolte dal governo Conte e probabilmente da tutti i governi precedenti in circostanze simili, ma è chiaro che si tratta di uno sforzo vano: la consulenza McKinsey è ormai come il piano Jp Morgan della campagna referendaria del 2016. Come Bibbiano. Come Benetton. Niente altro che un suono, un gioco di richiami più o meno subliminali, che servono solo ad alimentare indignazione e mobilitazione.
Più che al referendum del 2016, tuttavia, sembra di essere tornati al 2002, ai tempi della guerra civile a bassa intensità che si consumò allora dentro la sinistra: con le sardine al posto dei girotondi, Rocco Casalino al posto di Paolo Flores d’Arcais e Gustavo Zagrebelsky al posto di Gustavo Zagrebelsky. Sempre lì, nel 2021 come nel 2016, nel 2011 o nel 2002, a lanciare appelli contro il regime incombente, contro le manovre dell’oligarchia, lui che in qualunque altro paese, in qualità di giurista insigne, principe degli accademici, presidente emerito della Consulta, sarebbe giustamente considerato come il più illustre rappresentante dell’establishment, non certo del proletariato rivoluzionario. Ma siamo in Italia, e dunque ieri, sotto l’eloquente titolo: «Con il governo Draghi democrazia a rischio», si potevano leggere ampi stralci dell’appello lanciato dall’associazione Libertà e Giustizia da lui presieduta (ma costituita da quell’altro formidabile padre del socialismo rivoluzionario che risponde al nome di Carlo De Benedetti), ovviamente sul Fatto quotidiano, organo ufficiale della resistenza. Giornale su cui a dire il vero faceva un po’ specie, obiettivamente, leggere che «la scelta di chiamare Draghi al vertice di governo ha avuto il sapore di una radicale delegittimazione del ceto politico italiano, nella sua totalità». Quasi che la delegittimazione del ceto politico italiano nella sua totalità fosse qualcosa di negativo, anziché la specialità della casa, tanto per il quotidiano diretto da Marco Travaglio quanto per tutte le iniziative, riviste, manifestazioni e appelli della Zagrebelsky & Associati.
Ma c’è di più, naturalmente. «Si vuole mettere in guardia – ammonivano i firmatari dell’appello – dall’imporsi di una cultura che, dando per scontata l’insipienza dei politici, si affida acriticamente a “uomini della Provvidenza”, prescelti dall’alto anziché mediante il meccanismo elettorale dettato dalla nostra Costituzione». Non come Giuseppe Conte, par di capire, scelto in un colloquio privato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini in un pomeriggio, dopo la scarsa prova data dall’altro candidato – Giulio Sapelli – nel colloquio precedente. Ma sì, lo so, sono dettagli.
Andiamo al sodo. «In tempi eccezionali – prosegue il manifesto – proprio l’emergenza potrebbe essere strumentalizzata per consolidare politiche nel segno di un aggravamento dell’ingiustizia sociale, di una sistemazione oligarchica delle forme democratiche, di un ridimensionamento della funzione del pubblico, persino di un “ripensamento” del radicamento antifascista della nostra Repubblica».
E qui il tentativo di avvelenare i pozzi giocando con tutte le classiche parole-chiave, i più vieti tic politico-culturali, i più radicati riflessi pavloviani da sempre utilizzati a sinistra nella demonizzazione dell’avversario, a ben vedere, raggiunge le sue colonne d’Ercole e sfonda di slancio la barriera del ridicolo, finendo per consegnare a Giorgia Meloni la bandiera dell’antifascismo e della difesa del fondamento resistenziale della Repubblica.
Ma a pensarci bene non è che nelle mani di Conte, Casalino e Beppe Grillo la cosa suonasse meno grottesca. In ogni caso sarebbe bello se all’assemblea di domenica il Pd decidesse di farci sapere come la pensa, e se dunque ritiene di unirsi ai partigiani in lotta contro il Regime di Mario Draghi o al contrario di sostenerne lo sforzo per rimettere in piedi una decente campagna di vaccinazioni e un credibile piano di rilancio e resilienza. Sfida già di per sé assai impegnativa, ma tanto più difficile oggi, almeno fino a quando qualche colosso farmaceutico americano non avrà trovato anche il vaccino contro gli imbroglioni.