L’assemblea del Partito democratico che si riunirà sabato per decidere cosa fare dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti, verosimilmente, eleggerà un segretario, o forse una segretaria, pro tempore, cioè un altro leader di transizione, un reggente chiamato a tenere in piedi la baracca in attesa del congresso, in autunno o quando sarà. Non sarebbe una novità, e scagli la prima pietra chi nella propria vita si comporta diversamente, perché in fondo è anche così che il Pd assolve al meglio, da anni, la propria funzione di rappresentanza in una società italiana pressata da tanti e gravi problemi: rinviandoli sistematicamente.
C’è però una scelta di campo che il Partito democratico non può più permettersi di eludere, se non vuole rischiare di compromettere non solo la sua residua credibilità, che già non è molta, ma anche quella del paese. Ed è la scelta tra i sostenitori del governo attuale e i nostalgici del governo precedente, tra i fautori del nuovo corso e gli irriducibili partigiani dell’antico regime, tra chi si batte per il successo dell’esecutivo guidato da Mario Draghi e chi lavora, più o meno apertamente, per il ritorno del re spodestato.
C’è un’ambiguità che è tempo di sciogliere, perché i governi ombra li fanno i partiti di opposizione. Qui poi siamo al curioso paradosso di un partito di governo che si fa promotore di una maggioranza ombra, come si è visto nell’incresciosa vicenda dell’intergruppo (ma in fondo anche nel maldestro tentativo di candidare Giuseppe Conte alle suppletive di Siena, con il chiaro intento di comunicare subito ai seguaci dell’alleanza giallorossa che il loro generale vive).
Ogni posizione è naturalmente legittima, ma a questo punto la chiarezza è doverosa, non solo nei confronti dei propri militanti ed elettori. Lo pseudo-scandalo McKinsey (società di consulenza che collabora da decenni con il governo italiano, compreso il precedente) è solo una delle tante avvisaglie di quello che potrebbe aspettarci: una continua guerricciola di veline, scandaletti e scemenze assortite utili non solo a destabilizzare l’esecutivo, ma soprattutto a tenere unita, motivata e in tensione la base della vecchia maggioranza.
In condizioni normali si potrebbe anche soprassedere, ma non siamo in condizioni normali: in gioco c’è l’efficacia del piano di vaccinazioni e del piano di ripresa. E la posta non è meno alta per quanto riguarda il Partito democratico.
Che senso ha parlare oggi di rifondazione del Pd, mentre si conferma e si ribadisce l’alleanza strategica con il Movimento 5 stelle, difendendo a spada tratta anche le scelte più indifendibili del governo precedente (e dalle quali Draghi si sta saggiamente e rapidamente allontanando?). Se quello è l’orizzonte, se Conte resta il leader migliore e il punto di riferimento di tutti, ora che lo stesso Conte sta procedendo alla rifondazione dei cinquestelle, quale spazio può pensare di occupare il Pd? Davvero la massima ambizione del suo attuale gruppo dirigente è quella di ridursi a fare il junior partner del movimento contiano?
Sarebbe un errore immaginare che dalla crisi dei democratici possano uscire, come teorizzano ciclicamente i politologi, un partito di sinistra socialista da un lato e un partito di sinistra liberale dall’altro, pronti ad allearsi alle elezioni. La crisi della sinistra socialdemocratica – o comunque la vogliate chiamare – produrrebbe ancora e sempre la solita tragica alternativa tra populisti e tecnocrati, vaffa day e agenda Monti. Da un lato una sorta di grande Leu egemonizzata dai grillini, dall’altro una sorta di grande Scelta civica. Dove il «grande», in entrambi i casi, avrebbe un significato sommamente relativo.