Quella di Enrico Letta è una sfida in tutte le direzioni. Il nuovo segretario del Partito democratico guarderà da tutte le parti per restituire centralità politica e anche quantitativa (vedremo se ci sarà presto un rimbalzo nei sondaggi dopo la caduta zingarettiana) a un partito che negli ultimi tempi è parso afono, senza personalità, privo di una strategia che non fosse il corteggiamento dei populisti di Conte e Grillo. La sfida è a sinistra, ma da quella parte c’è poco, e a un Movimento 5 stelle in cerca di identità: ma qui siamo probabilmente nell’ambito di uno mero schema di alleanze tattico-elettorali, anche se su questo punto il neo segretario domani dovrà essere chiaro. Le alleanze sono inevitabili ma si possono stringere da una posizione non subalterna ma persino conflittuale. Come la pensa, Letta?
La sfida più di sostanza è ai riformismi in cerca di una casa e tuttora sfrangiati in piccoli lembi della tela politica nazionale. Perché Enrico Letta è uomo del riformismo profondo, se così possiamo identificare l’orgoglioso tratto del cattolicesimo democratico di Beniamino Andreatta e Romano Prodi di cui è figlio politico, e lo stesso keynesismo di Letta non va confuso con lo statalismo socialdemocratico ma meglio s’innesta sulla migliore scuola cattolico-liberale di Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno, appunto Andreatta.
Stando così le cose, Letta – lo si è già intuito dalle sue primissime parole – coltiva l’aspirazione a fare (o meglio: rifare) del Pd la casa dei riformisti. Spiega Giorgio Tonini, testa d’uovo del Pd del Lingotto veltroniano: «È una conferma della vocazione maggioritaria del Pd, che non è mai stata pretesa di autosufficienza, ma rifiuto della divisione del lavoro tra sinistra e centro. Ma il segnale forse più importante che l’elezione di Letta domenica trasmetterà al Pd è che ha avuto ragione chi, persa una battaglia interna al partito, non ha pilotato scissioni, ma ha condotto la sua battaglia dall’interno, anche attraversando il deserto della solitudine, della riflessione, della maturazione. Più chiaramente, si tratta di “una lezione umana, ma anche un messaggio politico, forte e chiaro: il Pd non intende rinunciare alla sua funzione di casa comune dei riformisti. E intende usare le porte delle sue sedi per fare entrare energie nuove e non per accompagnare uscite e abbandoni».
Se Letta davvero scriverà un’agenda riformista (peraltro utilissima anche per Mario Draghi) e aprirà le porte del Nazareno in questa direzione, sottrarrà inevitabilmente spazio ai grumi riformisti che tuttora non vanno mescolandosi. Dice Luigi Marattin, Italia viva, che «il cambio di leadership nel Pd (da una linea tradizionalmente più socialista e favorevole a una alleanza strutturale col M5S a una sulla carta più liberal democratica) è, finora, il sommovimento politico più interessante causato in un mese dal governo Draghi. È evidente che ve ne saranno ancora tanti altri».
Il deputato di Iv evidenzia una contraddizione: «La domanda fondamentale per orientarsi in questo percorso di mutamento dell’offerta politica italiana rimane, secondo me, sempre una: se sia possibile continuare ad avere grandi partiti in cui convivano due (o più) culture politiche estremamente diverse – che si contendono lealmente la leadership politica del partito durante i congressi – oppure se tale sfida sia di fatto fallita e non sia più rispondente alla domanda politica avere formazioni culturalmente più omogenee che competono (e in certi casi cooperano) tra loro».
È di certo anche questa un’altra grande sfida per Letta: tenere insieme le due anime storiche del Pd, e potrebbe essere la sinistra dem ad avere paura del nuovo capo, dato che a noi pare che Enrico paradossalmente (ma non tanto) assumerà nella sua agenda quei tratti che con Walter Veltroni e Matteo Renzi hanno segnato le politiche del partito nei suoi momenti alti, anche elettoralmente.
Claudia Mancina ritiene che «le varie iniziative che in questa fase, di fronte a un Pd sempre più spostato sui Cinquestelle, e cioè su un populismo di pseudosinistra, hanno giustamente cercato di costruire una prospettiva riformista e liberaldemocratica, anche con un tentativo di unificazione (forse di un partito?) perdono molte delle loro ragioni se il Pd torna a essere quello per cui era nato, cioè un soggetto decisamente e coraggiosamente riformista. Con Letta segretario si apre uno spazio nuovo, uno spazio che mi aspetto sia accogliente per tutti i filoni del riformismo, da quello più socialdemocratico a quello più liberaldemocratico».
La palla potrebbe passare dunque a Renzi, Calenda, Cottarelli, Bonino e gli altri. Enrico Letta cambia anche la loro agenda. Se il suo futuro sarà coerente con il suo passato.