La grande pax democratica è l’obiettivo di Enrico Letta. Sedare le guerre civili in atto da sempre, ma più connesse al potere e dunque più aspre negli ultimi anni. Raffreddare i bollori di capi e capetti, ascoltare chi ha cose sensate da dire senza correre appresso all’ultimo tweet. Cercare di coinvolgere tutti, che poi è l’altra faccia del non coinvolgere nessuno – perché alla fine decide lui -, insomma abbassare la febbre di un partito pazzotico il cui ultimo segretario ha preso cappello perché si vergognava dell’andazzo: un unicum nella storia dei partiti politici.
Domenica Letta sarà il nuovo leader del Partito democratico, eletto a grandissima maggioranza. Ieri è tornato a Roma, nella sua casa di Testaccio che, com’è noto, una vita fa veniva chiamata “il Cremlino” perché nel palazzo vi abitavano molti dirigenti del Partito comunista italiano (ci abita anche Giuliano Ferrara). Ha cominciato a pensare alla squadra di collaboratori, gente super-collaudata, mondo Arel (il centro studi di cui Letta è presidente), persone dell’epoca del suo governo del 2013.
Lui lavorerà a un partito “normale” capace di evitare pratiche centralizzatrici e spinte anarcoidi, soprattutto di sintonizzarsi con un Paese che cerca e ancora non trova pace: non è facile ma è quello che chiedono gli elettori del Partito democratico sempre più sfiduciati. Forse è l’ultima occasione.
Letta non è il “buono” che si crede. È uno tosto, che si accende. Però ha un modo di fare gentile, disponibile all’ascolto, includente. “Democristiano”, direbbe uno stereotipo della democristianità. Diciamo meglio che Letta è uno che sa mediare, questo sì. Il suo Partito democratico, soprattutto all’inizio (chi può prevedere il futuro di un partito che fa così fatica a trovare un equilibrio, in tutti i sensi), apparirà più tranquillo, non rissoso, persino un po’ freddino rispetto non diciamo agli sfracelli emozionali del primo Matteo Renzi ma anche a paragone di un certo entusiasmo all’inizio del biennio zingarettiano.
Il “lettismo” come “lettino di Freud” potrebbe essere utile, anzi propedeutico, alla ripresa di un ragionare politico più distaccato, più razionale, meno legato ai solipsismi di potere di quest’ultima fase. Il vantaggio del nuovo segretario sta nella piena coincidenza con la fase politica generale connotata dal clima unitario sotto il segno di Mario Draghi, tanto che si può con qualche ragione parlare di una convergenza fra i due uomini politici.
Letta infatti sta al Partito democratico come Draghi sta al governo, non a caso condividono la stessa sorte di essere stati chiamati uno da Parigi e l’altro da Francoforte dopo il “sacco di Roma” operato dai populisti di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio.
Letta e Draghi, dunque, a remare nella stessa direzione mentre il mare si increspa dinanzi a loro, con un Partito democratico in stato di rianimazione e l’Italia alle prese con la recrudescenza del virus. Ed entrambi hanno bisogno di pace per darci dentro.
Sul governo in effetti l’accordo voluto da Sergio Mattarella tiene, malgrado qualche trucchetto propagandistico di Matteo Salvini a uso e consumo dei burocratici pastoni del telegiornale e il ronzìo di quanti parlano di un governo non democratico che però non dà troppo fastidio, minoritario e vecchio com’è.
Certo, manca la voce di un Partito democratico che si è autosilenziato per volere di un segretario troppo fragile, manca il suo contributo (bravo al contrario Brunetta che ha chiuso un importante accordo coni sindacati sulla Pubblica amministrazione), manca la sua forza d’animo, la sua esperienza.
Tocca a Letta rimettere in acqua una nave ridotta a una zattera e farle riprendere il mare della politica in un momento delicatissimo della vita nazionale. Se lo lasciano fare – come crediamo, perché chi ha la forza adesso di mettergli i bastoni fra le ruote – e se lui saprà ridare un senso a questa storia, le cose gli andranno bene. E la novità di un Partito democratico che fa politica provando a scrollarsi di dosso la subalternità a un Movimento cinque stelle di nuovo pretenzioso sarebbe un fattore di stabilità e dinamismo insieme. Le due cose che servono a un’Italia che sta per tornare in zona rossa. Un Partito democratico che dopo tante traversie si connetterebbe allo spirito del tempo.