Più debito, più investimenti, meno rigoreCome potrebbero cambiare le regole europee sul vincolo di bilancio

La clausola di salvaguardia generale che ha congelato il Patto di stabilità e crescita non sarà disattivata prima del 2023, La pandemia ha cambiato l’approccio degli Stati membri alle politiche di fiscalità. Nell’ultimo Consiglio europeo Mario Draghi ha ricordato nel corso del vertice che la priorità assoluta deve essere non commettere errori nella fase di rilancio dell’economia. Il lungo e faticoso dibattito interno all’Unione è appena iniziato

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Una nuova cornice per la politica fiscale e un titolo comune europeo per prevenire altri shock finanziari: anche senza la presenza di Joe Biden, le proposte di Mario Draghi sarebbero bastate per vivacizzare il Consiglio europeo di giovedì scorso. La strada è ancora lunga, ma il presidente del Consiglio ha messo i 26 colleghi capi di Stato e di governo di fronte a una proposta forte, difficile da ignorare. 

D’altronde la pandemia ha fatto emergere tutte le falle di un’integrazione economica e politica zoppa come la nostra. E quale occasione migliore di questa per ripensare la governance economica dell’Unione e dare nuovo slancio al progetto europeo. 

Il Patto di stabilità e crescita – la roccaforte delle regole europee sui conti pubblici – sarà con tutta probabilità una delle vittime più illustri del coronavirus. La clausola di salvaguardia generale attivata l’anno scorso per congelarlo non sarà disattivata prima del 2023, per consentire agli Stati membri di sostenere la ripresa senza doversi preoccupare dell’indebitamento. Per come stanno le cose oggi è difficile immaginare che tra due anni il Patto venga semplicemente scongelato e servito pronto come se niente fosse. 

Molto è in effetti cambiato da quando il governo italiano mercanteggiava con la Commissione europea sui decimali di deficit per la legge di bilancio. Anzitutto, i paesi europei – tutti, non solo gli “spendaccioni” del club méditerranée – hanno accumulato una gran quantità di debito per compensare le famiglie e i settori investiti dalla crisi. 

L’Italia è ormai prossima a un rapporto debito/pil al 160%, la Francia dal 98% del 2019 ha superato largamente il 115%. Ma anche la morigerata Germania ha scavalcato di 15 punti la soglia del 60% prescritta dal Patto di stabilità. Una soglia a questo punto fuori portata persino per i paesi più parsimoniosi. 

In più, l’impressione generale è che in Europa la paura di azzoppare la ripresa superi di gran lunga la smania di restaurare il rigorismo fiscale. Lo stesso Mario Draghi ha ricordato nel corso del vertice che la priorità assoluta deve essere non commettere errori nella fase di rilancio dell’economia. Ma il sentimento sembra tutto sommato condiviso. 

«Con i livelli attuali di debito, tornare alle regole del Patto di stabilità significherebbe imporre una stretta fiscale a tutti gli Stati membri» commenta a Linkiesta Massimo Bordignon, direttore dell’Istituto di Economia e Finanza all’Università Cattolica di Milano e membro dello European Fiscal Board, l’autorità dell’Unione europea indipendente sulle materie fiscali, «e una stretta fiscale collettiva sarebbe dannosa per tutti, specialmente se attuata troppo presto, prima che la ripresa sia ben avviata». 

Come se non bastasse, al di là dell’Atlantico c’è anche il contraltare americano – il maxi-piano Biden da 1.900 miliardi di dollari, alla faccia della politica fiscale espansiva – a mettere sotto pressione i pochi che ancora inneggiano al Fiscal Compact. 

Il dibattito sulla riforma del Patto di stabilità non è certo nato ieri. Paolo Gentiloni aveva aperto alla revisione delle regole nella sua prima audizione al Parlamento europeo come Commissario agli affari economici. E lo stesso European Fiscal Board aveva presentato nel 2019 una proposta di riforma su richiesta dell’ex presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. «L’intento però è cambiato» precisa Bordignon, «all’epoca l’obiettivo della Commissione era razionalizzare la giungla di interventi legislativi che negli anni hanno reso le regole di bilancio astruse e difficili da giustificare. Oggi la sensazione è che la revisione attesa sarà ben più radicale». 

Un nuovo patto, dunque, che sarà presentato da Gentiloni – in tandem con Mario Draghi ed Emmanuel Macron – probabilmente in autunno, dopo le elezioni tedesche. 

Cosa aspettarsi dalle regole fiscali post pandemiche? Quasi certamente resteranno regole vere e proprie, e non standard flessibili come propone per esempio l’economista Olivier Blanchard. Ma è plausibile che la regola del debito (il famoso 60% sul pil), come pure i criteri di rientro sul debito, siano differenziati tra paesi. Del resto la formula one size fits all non è più di gran moda, e un rapporto al 60% può funzionare giusto per la Germania e pochi altri. 

A quel punto il livello del debito potrebbe diventare l’unico parametro da tenere in conto, togliendo quindi dal campo il target del deficit strutturale il cui calcolo presenta non poche complicazioni. E per controllare la dinamica del debito si userebbe un unico strumento: la spesa pubblica, al netto degli interessi e delle spese soggette al ciclo economico come i sussidi di disoccupazione. 

«L’idea è più semplice rispetto alle regole attuali: se una famiglia ha debito e vuole ridurlo, deve spendere meno del suo reddito» spiega Bordignon, «allo stesso modo, per ridurre il proprio debito, un paese deve impegnarsi a mantenere sotto controllo l’evoluzione della spesa perché cresca meno del reddito, e quindi delle entrate fiscali». Una riforma all’insegna della semplificazione insomma, in nome del principio per cui se una regola viene compresa si è anche più disposti a osservarla. 

Ma non è tutto. Si lavora anche a una golden rule – seppur limitata – per scorporare dal calcolo del debito alcuni investimenti pubblici, in particolare quelli verdi e digitali. E alimentare così la visione del Next Generation Eu anche quando il rubinetto Recovery sarà sigillato. 

Dopotutto se l’Europa intende spingere su sostenibilità ambientale e digitalizzazione è anche giusto che gli stati ricevano un po’ di aiuto per raggiungere quegli obiettivi. Come lo stesso Gentiloni non ha mancato di ribadire davanti alla Corte dei conti francese proprio ieri («A mio parere, le nostre nuove regole fiscali dovrebbero prevedere un trattamento speciale per gli investimenti»).

Di certo il dossier sulla riforma del Patto di stabilità riaccenderà la battaglia con i falchi nordeuropei. Ma a farli saltare sulla sedia sarà l’altra proposta di Draghi per rafforzare l’integrazione economica e politica: un safe asset comunitario (si è ben guardato dal pronunciare la parola “Eurobond”). In sostanza un titolo di debito europeo completamente privo di rischio e garantito dal budget comunitario. «È un obiettivo di lungo periodo, ma è importante avere un impegno politico» ha detto il premier all’Eurosummit. 

Oltre all’asse dei nordici è in Germania che bond e bilancio comune agitano da sempre gli animi, insieme al timore che siano i contribuenti tedeschi a dover ripagare i debiti dei paesi mediterranei. Sentimento diffuso in particolare nelle frange euroscettiche, le stesse i cui ricorsi hanno bloccato la ratifica del testo di legge per il via libera alle risorse proprie per finanziare il Next Generation Eu. Provvedimento che peraltro aveva già ottenuto il sì di oltre due terzi del Bundestag. 

Ma Draghi non intende sottrarsi allo scontro. E il modello è ancora una volta quello statunitense: è infatti la presenza del Treasury Bond (il buono del Tesoro americano) sostenuto dal bilancio federale, di un mercato dei capitali unico e di un’unione bancaria completa a fare del dollaro la valuta di riferimento negli scambi internazionali. Senza questi elementi l’efficacia dell’azione europea sul piano economico si riduce, e l’euro è destinato a rimanere una moneta di serie B. 

Il Next Generation Eu ha senz’altro buttato giù qualche muro, aprendo una via per la condivisione del debito. Per ora rappresenta solo una risposta eccezionale a una situazione eccezionale, con chiari limiti di entità, durata e raggio d’azione. Ma potrebbe più avanti fornire l’assist per la creazione degli Eurobond. «Una parte sostanziosa del Next Generation Eu è fatta di trasferimenti agli Stati a fronte di emissione di titoli da parte della Commissione» spiega Massimo Bordignon, «e chi dice che questi titoli di debito, invece di essere restituiti, non possano essere rinnovati a scadenza e diventare parte della gestione macroeconomica dell’Unione?». Ed eccolo lì, il safe asset da usare in funzione anticiclica, per sostenere i paesi nei periodi di crisi finanziaria. 

Certo l’istituzione degli Eurobond passa anche per il rafforzamento dell’unione fiscale e del bilancio comunitario, oggi ancora estremamente rigido e ancorato a interessi consolidati da oltre mezzo secolo. Basti pensare che la voce di spesa più importante è l’agricoltura, che rappresenta ancora circa il 40% del budget. E dunque anche il dibattito sulle tasse europee – dalla web tax per i giganti del tech alla tassa sulla plastica – pagate dai cittadini europei direttamente alla Commissione dovrà inevitabilmente riprendere il suo corso.

Insomma, il cantiere della governance economica europea è ufficialmente aperto, anche grazie alla spintarella di Mario Draghi al Consiglio europeo. Peccato ci sia voluta una pandemia globale per cominciare a gettare le fondamenta.

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