Il rischio di un altro ’93, di un secondo crash down dei partiti a distanza di venticinque anni dal precedente, comincia ad acquistare una sua concretezza. L’annuncio (o forse solo la minaccia) di dimissioni di Nicola Zingaretti, è l’ultimo atto di una generalizzata crisi di nervi dei partiti che ricorda da vicino – arresti e inchieste a parte – lo stato confusionale della politica italiana in quell’antico passaggio, quando nessuno sembrava più capire gli eventi, la realtà, la direzione in cui muoversi.
Allora, fu l’esito di una tornata amministrativa a decretare il declino di ogni certezza e strategia: chi ha un po’ di memoria ricorderà la sconfitta della sinistra a Milano (con l’elezione del leghista Marco Formentini) e quella della Democrazia cristiana a Roma (con l’approdo al ballottaggio del missino Gianfranco Fini). Stavolta le elezioni sono state rinviate all’autunno, ma la crisi non ha aspettato la certificazione del voto. È precipitata a prescindere, a ogni latitudine politica, nell’arco di pochi giorni, ovunque appesa alla difficoltà delle classi dirigenti di controllare i loro “mondi” e di dargli una prospettiva.
La sinistra ha scoperto all’improvviso, grazie a un sondaggio, che l’asse tenacemente costruito col Movimento cinque stelle e con Giuseppe Conte è potenzialmente un disastro per le sue percentuali elettorali. Il Movimento si è sfasciato sotto le martellate di Davide Casaleggio, che ieri ha pubblicato la base teorica della scissione prossima ventura – un manifesto intitolato “Contro Vento” – in aperto conflitto con i “governisti”.
Sul fronte opposto, la Lega appare stordita dai pericoli e insieme dalle opportunità della svolta europeista in favore del governo di Mario Draghi: spedisce lettere di solidarietà politica all’ungherese Vicktor Orban, che ha lasciato il Partito popolare europeo per difendere il suo “diritto al sovranismo”, e al tempo stesso ambisce a sostituirlo entrando nella famiglia dei Popolari.
Ora che tutto si è compiuto – tutto in una notte o poco più – forse è più chiaro il tipo di tensioni che covavano dietro le apparenti sicurezze del governo “di prima”. È più chiaro perché, contro ogni ovvio consiglio, il governo “di prima” abbia rifiutato per mesi il rimpasto o la sostituzione dei gestori dell’emergenza che non funzionavano.
È più chiaro il motivo per cui, nel 2020, l’opposizione si è trincerata sull’Aventino, temendo le conseguenze di ogni scelta di collaborazione (che la situazione del Paese avrebbe imposto fin dai primi giorni dell’epidemia). E, soprattutto, è più facile capire perché abbiamo Mario Draghi a Palazzo Chigi, perché a un certo punto la convocazione del “meglio” si è resa indispensabile e urgentissima.
Ognuno degli elementi di conflitto venuti allo scoperto nelle ultime ore era già ben vivo nel backstage del Conte Due: lo scontro frontale tra correnti e linee politiche nel Partito democratico; la ribellione dei “Casaleggisti” contro la normalizzazione del Movimento; il dissenso del “partito del Nord” per le scelte di Matteo Salvini; i sondaggi in calo di tutti; le insufficienti risposte di tutti al classico “che fare”. Sono stati insabbiati nella retorica dell’emergenza, per mesi, confidando nel collante del potere. Un pessimo servizio a se stessi, e anche al Paese.
Nicola Zingaretti, ieri, ha detto che “si vergogna” di un partito che in piena pandemia parla solo di se stesso: si figuri come si vergognano i cittadini, che al suo partito e alle altre due grandi forze italiane hanno dato oltre 22 milioni di voti solo tre anni fa e adesso devono sperare nell’autorevolezza e nel decisionismo di un banchiere per salvare la loro salute, i loro redditi, i loro posti di lavoro, mentre l’intero quadro politico frana nella spirale della resa dei conti. È strano, ma anche questa parola ricorda i sentimenti che prevalsero nei partiti in quel lontano ’94, e sinceramente, stavolta, se ne può fare a meno.
Più della vergogna, dovrebbe farsi strada – nel Partito democratico, nel Movimento cinque stelle, nella Lega – un sentimento opposto, una botta di sfrontatezza e coraggio per dire a se stessi: ci siamo, i nodi sono venuti al pettine, bisogna tagliarli, finalmente è finito il piccolo cabotaggio e le circostanze obbligano a decidere.