CoprifuochismoLasciare l’esclusiva delle aperture a Salvini può essere un errore

Per tradizione rompere i chiavistelli, eliminare le strozzature che intralciano l’iniziativa e l’uguaglianza è il primo imperativo di uno schieramento progressista. Il Covid ha capovolto anche questo, lasciando alle destre più oscurantiste il ruolo (ingannevole) di liberatori e agli altri quello di nemici della movida

Fotografia di [2Ni] da Unsplash

C’erano una volta le case chiuse: e tanti maschi, soprattutto a destra e nelle classi di età già vaccinate, le evocano con nostalgia, come bomboniere di un erotismo rétro alla Tinto Brass, dove i Ciro di allora potevano dare sfogo ai loro ormoni senza essere denunciati per stupro.

Poi venne una senatrice socialista, un’eroina della Resistenza, Angelina Merlin detta Lina, e aprì le case chiuse con l’intento di restituire dignità e libertà alle donne.

C’erano una volta i manicomi dove incatenavano ai letti i malati di mente, poi venne il dottor Franco Basaglia, uno psichiatra di sinistra, anche lui ex-partigiano, che aprì i cancelli ai matti con la legge 180.

C’era una volta la scuola media riservata ai borghesi che sarebbero poi andati al liceo e all’università, separata dall’avviamento professionale per i ragazzi meno fortunati: e fu un governo di centrosinistra, nel 1962 (anche se il ministro dell’istruzione era democristiano, Luigi Gui) ad aprire le porte della media unificata anche ai figli degli operai. E uno dei primi frutti del Sessantotto fu, l’anno successivo, la legge Codignola che schiuse l’accesso agli atenei anche ai diplomati degli istituti tecnici.

E in fondo, cos’è stata la legge sul divorzio se non l’apertura del matrimonio inteso come istituzione chiusa, l’ergastolo di tante coppie che non sopportano più la convivenza? Come non è certo un caso che il primo movimento di liberazione degli omosessuali, fondato a Torino da Angelo Pezzana, si chiamasse Fuori!, a indicare l’urgenza di aprire porte e finestre, e uscire allo scoperto.

Aprire, rompere i chiavistelli, eliminare le strozzature che intralciano la libertà e l’uguaglianza. Questo è da sempre, o almeno dovrebbe essere, il primo imperativo di uno schieramento progressista, o anche semplicemente liberale.

«Apertura a sinistra» era lo slogan dei democristiani come Aldo Moro che volevano superare gli angusti confini del centrismo e costruire una nuova alleanza con i socialisti. E qualche anno dopo il cancelliere tedesco Willy Brandt lanciava la sua Ostpolitik, la politica di apertura all’est, ai paesi del blocco sovietico, per allentare la tensione tra le due Germanie.

Di solito sono le destre, i conservatori, a voler chiudere e alzare barriere. Trump che sognava di erigere un muro lungo la frontiera col Messico, Salvini che minacciava di chiudere i porti per bloccare le navi delle Ong.

Democratici e sinistre si sono sempre opposti a tutto questo, i muri li vogliono abbattere, i porti e i confini li pretendono aperti.

Ecco perché fa un po’ specie vedere i vari Speranza e Franceschini, il fior fiore della sinistra di governo, farsi paladini della linea più intransigente in tema di riaperture e di coprifuoco, lasciando proprio ai Salvini e alle Meloni, ai forcaioli dei decreti sicurezza, ai nemici della legge antiomofobia, delle unioni civili, dello ius soli e della cittadinanza a Zaki, la bandiera delle libertà individuali.

Pur avendo ottimi motivi per non cedere ai ricatti della Lega, ogni tanto gli amici del Pd e di LeU danno l’impressione di vedere nelle serrande abbassate e nelle luci spente non una sciagura collettiva imposta dal virus e durata fin troppo, ma quasi un baluardo di civiltà, una linea del Piave contro barbari della movida, falsari dell’autocertificazione, consumisti ed evasori fiscali.

Più che alla tradizione della sinistra libertaria e riformista, sembrano richiamarsi al moralismo berlingueriano del rigore e dei sacrifici: l’austerità vista come «mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato». Senza cilicio, insomma, non si cambia il paese.

Personalmente non sono mai stato entusiasta della “via italiana” nella lotta al coronavirus, e credo che ci siano molte cose da chiarire sulle responsabilità politiche dell’ecatombe che abbiamo subito.

Credo anche che ci fossero ben poche alternative al lockdown (che in forme diverse è stato adottato in tutto il mondo) e che se fossimo stati nelle mani dei nipotini di Alberto da Giussano o dei fratellini e sorelline d’Italia ci saremmo curati con la clorochina e il plasma iperimmune e oggi butteremmo i cadaveri nelle fosse comuni come nel Brasile di Bolsonaro. E i deliri degli ”apristi” sui social, che farneticano di dittatura sanitaria e di caccia agli untori o paragonano Alessandro Gassmann ai delatori che consegnarono Anna Frank alla Gestapo mi scatenano reazioni avverse incontrollabili.

Però attenti: non si può continuare a giocare di rimessa, regalando al bullo con la maschera tricolore l’esclusiva della campagna per le riaperture. La gente, tutta la gente, anche quella di sinistra, anche quella senza partita Iva, che paga le tasse con la trattenuta sulla busta paga o sulla pensione e non ha perso reddito con il lockdown, è sfinita da un anno senza abbracci, senza trattorie e senza cinema.

Non vede l’ora di ricominciare a vivere, di darsi «all’individualismo più sfrenato», allo spreco e allo sperpero che Berlinguer condannava. O anche soltanto di tornare al lavoro, perché troppi lo hanno perso.

E se non saranno i liberali, i democratici, ad aprirgli le gabbie e riaccendere le luci, voteranno chi, almeno a parole, promette di farlo. Anche se sceglie il Rinascimento di Orbán, con le frontiere chiuse e la stampa imbavagliata. Del resto siamo negli anni Venti, non dimentichiamo come andò a finire un secolo fa.

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