«Anche tu AstraZeneca?». La domanda corre su WhatsApp, con un tono tra il complice e l’apprensivo. E poi: «Nuvola o Termini?», «Fiera o Niguarda?». Così come una volta si chiedeva: «Vieni anche tu al corteo?». Oppure «Cosa voti al referendum?». Ci si vede in fila al centro vaccinazioni con lo stesso affettuoso cameratismo con cui ci abbracciavamo il 25 aprile in Piazza Duomo. E, complice la chiusura dei parrucchieri, con le stesse zazzere un po’ ingrigite, le barbe castriste o i codini di quegli anni formidabili. I boomer, i figli dei fiori, gli ex giovani del Sessantotto, sono diventati la generazione AZ. Che non è il dentifricio salato o la sigla dei voli Alitalia, ma il vaccino AstraZeneca. La generazione di Mario Draghi, classe 1947, che si è fatto iniettare anche lui, con grande coscienza civile e sprezzo del pericolo, il più sfigato dei vaccini, la fiala che tanti schifano.
Perché il vaccino che prima sembrava riservato ai più giovani, dopo qualche decina di eventi infausti (tuttora inspiegabili) adesso tocca ai più anziani. A noi che abbiamo l’età della Costituzione più bella del mondo e siamo nati quando Elisabetta e Filippo si erano appena fidanzati. O meglio, a noi sopravvissuti: in questo anno terribile il virus ci ha strappato tanti coetanei, amici, compagni, colleghi, familiari, e non proprio tutti si potevano definire un “peso per la società”.
Gli italiani dovrebbero dirci grazie, anche quegli sbarbati che col permesso di Domenico Arcuri o di Michele Emiliano, o con qualche altra gabola, ci sono passati davanti. Perché senza di noi, senza i nostri deltoidi generosamente offerti alla siringa, nessuno esce dal guano. Noi che col Sessantotto abbiamo aperto la strada alla liberazione sessuale, alla liberazione della donna e dei gay e allo Statuto dei lavoratori (e anche a qualche disastro e a numerose nefandezze, ma questa è un’altra storia), col movimento del Ventuno spianeremo la via alla liberazione dei baristi, dei ristoratori, degli studenti dadizzati. Di più, all’agognato riscatto di sessanta milioni di cittadini sequestrati dal lockdown. Smettendo di intasare le terapie intensive, faremo ripartire le palestre e gli spritz.
Anche questa rivoluzione avrà bisogno dei suoi slogan. Al posto del veteroleninista e divisivo «Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi», scandiremo tutti assieme, con spirito di unità nazionale, «Chiusure, ristori, ancora poche ore». Oppure «Coviddi, Corona, Azeta non perdona». Perché Azeta è la stella che ci guida nella notte. A conquistare la rossa, anzi bianca primavera. Alla faccia di Pasquale Bacco e Angelo Giorgianni e del loro libercolo no-Vax (prefato a sua insaputa dal procuratore Nicola Gratteri) con quel titolo, “Strage di Stato” che è un insulto alle vittime di Piazza Fontana. La strage l’ha provocata il virus, e il vaccino è l’unica arma che abbiamo per fermarla.
Nel ’68 molti di noi avrebbero scelto lo Sputnik o, meglio ancora, il vaccino cinese (vietnamita sarebbe stato il top). Ma se dovesse vaccinarsi adesso, uno come Herbert Marcuse opterebbe di sicuro per AstraZeneca, e così pure don Lorenzo Milani. Perché Azeta è il “vaccino proletario” (copyright Antonello Venditti), quello meno costoso di tutti, quello che porta meno profitti alle perfide multinazionali. Perfino il comandante Che Guevara andrebbe di corsa a farselo iniettare, in divisa militare come Figliuolo, e nessuno troverebbe niente da ridire. Dimenticate l’assalto al cielo o al Palazzo d’inverno: ora ci accontentiamo di prendere la Nuvola, o il Portello. L’inoculazione al potere.
E comunque AstraZeneca (anzi Vaxzevria come lo hanno ribattezzato per semplificare) è un vaccino un po’ démodé, fabbricato coi vecchi, buoni adenovirus della tradizione. Quello più modaiolo, veramente hi-tech, è fatto con le molecole di RNA messaggero, e per questo costa di più. AZ è il vinile, la musicassetta dei vaccini, mentre Pfizer o Moderna sono Spotify, TikTok. O se preferite, la Tesla. Ma, che volete, noi sessantottini siamo dei rivoluzionari conservatori, ci piace il vintage.