L’evoluzione dello spazioLe città di domani assomiglieranno a quelle di ieri (ma saranno più pulite)

Ripensare le aree urbane post-pandemiche non vuol dire rivoluzionare tutto. Più che altro servirà sviluppare le strutture già presenti, dagli uffici alle aree verdi ai negozi. Un articolo del Financial Times offre alcuni spunti di riflessione

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Da un anno si affastellano riflessioni su riflessioni intorno al cambiamento delle città, degli spazi pubblici, delle aree verdi di cui c’è sempre più bisogno e dei veicoli inquinanti di cui dovremmo fare a meno. Indubbiamente, è stato un anno di trasformazione per i centri urbani, che però non stanno scomparendo. E non c’è motivo per pensare che sia in atto una rivoluzione dell’organizzazione delle città: semplicemente, è l’evoluzione degli spazi che da mesi va avanti con il fast forward.

In un lungo articolo sul Financial Times, Simon Kuper offre una chiave di lettura per guardare alle ultime trasformazioni come a dei semplici aggiustamenti strutturali: «Le città devono prendere lo spazio che oggi è di automobili, uffici e negozi e darlo agli appartamenti a prezzi accessibili, alla comunità, alla natura. La città del futuro potrebbe assomigliare molto alla città del passato, semplicemente più pulita: biciclette, fattorie e lavoro da casa in stile settecentesco, non necessariamente ci saranno macchine volanti».

Kuper dice di aver raccolto alcune delle migliori idee per lo sviluppo delle città post-Covid, guardando soprattutto alle grandi città dei Paesi ricchi, quindi Londra, New York, Parigi. «Le città dei Paesi in via di sviluppo hanno problemi diversi, ma molti concetti si applicano anche a loro», scrive.

Uno dei primi problemi da affrontare per le amministrazioni cittadine è la carenza di liquidità, la difficoltà nell’investire soldi in piena crisi. Ma molte infrastrutture e molte soluzioni sono già presenti, non bisogna crearle: occorre solo valorizzarle, magari metterle a sistema con altri elementi per creare una città più verde, più economica, più felice, più sana, più equa e produttiva, meno inquinata e solitaria.

Il primo esempio riportato nell’articolo è l’ufficio, destinato a un ruolo minore rispetto al passato, forse anche a un ridimensionamento nelle sue dimensioni fisiche, ma non a sparire del tutto.

«Molti uffici rimarranno centri di scambio di idee. Ma in molti settori si deve continuare a lavorare da casa per la maggior parte del tempo», scrive Kuper, citando un sondaggio delle università di Cardiff e Southampton che indica come un buon 88% dei lavoratori britannici sia favorevole all’home working anche dopo la pandemia.

La prima conseguenza sarebbe un aumento relativo negli stipendi dei dipendenti: le spese dell’abbonamento ai mezzi pubblici, dell’auto, dei pranzi in ufficio diventerebbero una fonte di risparmio per molti. E a questo va aggiunto anche il beneficio che ne trarrebbero molti piccoli centri e aree interne, che sarebbero più popolate che in passato: una condizione di cui l’Italia avrebbe parecchio bisogno.

Questo non esclude che l’ufficio possa diventare luogo di incontro per meeting di lavoro con colleghi o clienti. Ma, in ogni caso, il risparmio sarebbe anche per le aziende, che potrebbero ridimensionare i propri spazi e tagliare i costi.

«Le città ne guadagnerebbero in aria più pulita e minori emissioni di carbonio. Le zone amministrative potrebbero essere ancora dedicate agli uffici, ma alcuni edifici potrebbero essere convertiti in case, proprio come negli anni Ottanta le fabbriche abbandonate sono diventate loft. Dopotutto la conversione è fattibile, anche se le case in genere richiedono una distribuzione più densa di accessori come impianti idraulici e scale. Convertire è anche più ecologico che demolire vecchi edifici e costruirne di nuovi», si legge sul Financial Times.

Allo stesso modo i negozi stanno diventando rapidamente una reliquia dell’era prepandemica. D’altronde già prima del 2020 gli store fisici stavano lentamente cedendo il posto all’e-commerce. Il discorso è molto simile a quello degli uffici: le vetrine e gli spazi ai lati dei marciapiedi dovrebbero trovare degli inquilini più flessibili rispetto ai vecchi negozi statici che stavano già perdendo clienti.

In un discorso più ampio, interi quartieri trarrebbero giovamento da queste trasformazioni. «Chi non può lavorare da casa per mancanza di spazi o comfort», scrive Simon Kuper, «può affittare spazi di coworking flessibili nelle strade limitrofe. Allo stesso modo, i venditori di panini, gli addetti alle pulizie e gli istruttori di fitness, che prima servivano i lavoratori in centro, dovranno ora recarsi in altri quartieri. Quindi l’home working attenuerà il divario del XX secolo tra i quartieri residenziali e i quartieri legati al business degli uffici».

La madre dell’urbanistica Jane Jacobs, autrice di “Vita e morte delle grandi città” (1961), sosteneva che ogni quartiere si sarebbe dovuto sviluppare in più modi, con molti usi, in modo che potesse funzionare 24 ore al giorno. L’esempio perfetto è il suo Greenwich Village a New York: animato di bambini che giocavano, casalinghe che facevano la spesa, impiegati fuori a pranzo e movida nei bar di notte.

Il movimento costante di persone in strada porta diversi benefici, sosteneva Jacobs: «Tutti quegli occhi sulla strada riducono la criminalità e favoriscono anche la fiducia, perché i residenti si conoscono (anche se solo di vista) dai marciapiedi, dai bar e dai mercati». L’evoluzione dei nuovi quartieri delle città deve andare verso il concetto della “città in 15 minuti”.

Un altro cambiamento in atto riguarda la mobilità: «Gli abitanti delle città sono così abituati alle auto parcheggiate che raramente ci si rende conto di quanto spazio occupino. Un parcheggio è dedicato a beni che rimangono inattivi per circa il 98% del tempo», si legge sul Financial Times.

Le fonti consultate da Kuper per il suo lungo articolo suggeriscono che, come strumento di mobilità sostenibile, più dell’auto elettrica le città dovrebbero incentivare l’uso delle biciclette elettriche, le e-bike, che hanno venduto molto più delle auto elettriche in Europa nel 2019 – già prima di decollare davvero durante la pandemia.

«La città di Parigi sta mettendo in campo un progetto da 42 miliardi di euro per costruire nuove linee della metropolitana e 68 stazioni nei sobborghi. Per, forse, un terzo di quel prezzo, si potrebbe dare una e-bike a tutti i 12 milioni di abitanti della sua area metropolitana e prestarne una gratuitamente a ogni turista», dice Kuper.

La parte più critica dell’analisi del Financial Times riguarda le abitazioni in città: sempre meno accessibili, sempre più appannaggio delle fasce più alte della cittadinanza, sempre più esclusivi. «Anche nei periodi peggiori della crisi dello scorso anno, i prezzi delle case in 20 metropoli statunitensi sono aumentati del 10 per cento», si legge nell’articolo. «New York, nonostante tutti i discorsi sul suo presunto spopolamento, ha raggiunto esattamente quella media di crescita. I londinesi e newyorchesi più poveri spendono la maggior parte del loro reddito in affitti. Mentre altre persone sono escluse dalle grandi città. Man mano che uffici e negozi si trasformano in abitazioni, i prezzi dovrebbero diminuire».

Le persone dovrebbero ritrovare familiarità anche con gli spazi verdi dei loro quartieri. «Per rendere i cittadini più felici, o per combattere ondate di caldo sempre più frequenti, le città stanno creando nuovi spazi verdi. Barcellona, ad esempio, sta incoraggiando i residenti a creare giardini pensili comuni».

Uno spazio prima inutilizzato può quindi diventare facilmente un plus per la comunità, per la salute dei cittadini, per contrastare la solitudine, per ripararsi dal sole grazie all’ombra e risparmiare sull’aria condizionata.

«Gli spazi verdi», conclude Kuper, «possono assumere molte forme diverse. Le case potrebbero essere ricoperte di piante da parete. Le fattorie urbane proliferano a Philadelphia e Detroit. Parigi sta progettando foreste urbane su siti di pietra o cemento come il cortile del suo municipio. Ma anche un solo albero in fiore per strada può dare gioia ai residenti».

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