Per la seconda volta (la prima era stato il discorso ai parlamentari grillini), Giuseppe Conte non ci ha detto niente su che cosa ha in mente di preciso per rifondare il Movimento Cinque stelle. L’occasione era buona, la tavola rotonda organizzata dal «grande amico» Goffredo Bettini, che gli aveva steso gran tappeti rossi auspicando «un doppio decollo» dei due partiti antisovranisti, appunto Pd e M5s (con un attacco a chi contesta l’alleanza di queste due forze, quindi niente Matteo Renzi. Ma l’ex premier, pur con una certa abilità slalomistica fra concetti troppo vaghi, è stato debole soprattutto a causa di una confusione intellettuale iniziale che consiste nel non marcare bene la differenza abissale che esiste fra popolare e populista.
Diciamo con semplicità che il “salto” che l’avvocato del popolo dovrebbe auspicare, e forse auspica ma non lo dice, presupporrebbe esattamente la rottura con il grillismo populista per approdare a un soggetto di centrosinistra, verde e popolare.
Non è un salto che si possa compiere in una notte, lui che d’altra parte in una notte o poco più passò senza scomporsi dal guidare un governo con la destra a guidarne uno con la sinistra, e tuttavia Conte, nella vaghezza del suo discorso, non compie l’unica cosa che renderebbe credibile una trasformazione strutturale del Movimento: rompere con il grillismo che, in quanto “incultura politica”, non ha per definizione la possibilità di evolvere.
La bontà del progetto di un “nuovo M5s” passa cioè attraverso l’abiura di populismo, a-democraticità, demagogia, falsa democrazia diretta, cioè quell’impasto antipolitico che ha raccolto il peggio dell’umor nero degli italiani incistandolo su un’antica tendenza regressiva e di destra, tanto è vero che l’intesa con la Lega venne naturaliter e proseguì bene fino al fatale mojito di Salvini: ed è stato altamente significativo che ieri Conte abbia con nonchalance affermato che con il governo gialloverde «i porti non erano chiusi, entrava chiunque magari con qualche giorno soverchio», una chiara violenza alla cronaca, ma soprattutto un indizio preoccupante di come nel mondo contiano tutti i gatti siano grigi, e vai a capire se in questo predomini più il tratto politicista o quello dell’irrisolta capacità di analisi.
Invece di fare i conti con la fallimentare esperienza grillina, terminata con la follia del papà Beppe in video sul figlio accusato di stupro, emblema di un disfacimento anche morale del Fondatore, Giuseppe Conte punta su un’evoluzione, ancora informe, ma che pur pendendo verso il centrosinistra non è in grado di acquisire quella credibilità necessaria per varare la nuova nave.
Generoso, certo, il tentativo di dimostrare che nelle varie declinazioni del conflitto destra-sinistra il M5s si sia sempre collocato a sinistra: generoso ma troppo parziale, dunque falso (sull’immigrazione il Movimento è di sinistra?) ma tanto basta ripetere la cantilena che quel conflitto è in tanti casi superato per lavarsene le mani.
Eppure, non tanto paradossalmente, Enrico Letta (e non parliamo di Bettini) contano esattamente su questa vaghezza dell’avvocato, su questa sua naïveté pre-politica, su questa finta ingenuità, per costruire un «campo» in grado di battere una destra che in spregio a una elementare logica della politica più si divide più pare forte. E il vespaio pentastellato si aggrappa a un politico senza volto che al massimo, e sarebbe già tantissimo, potrà raccogliere un po’ di vecchi aficionados in un piccolo cantiere, come gli suggerisce Bettini, simile ai Verdi tedeschi. Al momento è l’unica lucina che Conte accende, troppo poco per guardare nel buio del grillismo.