Patrimonio da curarePuntare su digitale, edilizia e sostenibilità per far ripartire la formazione artistica in Italia

È necessario utilizzare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per mantenere alto il prestigio delle Accademie e degli istituti artistici italiani. Servono investimenti per incrementare la digitalizzazione nella gestione dell’amministrazione e del patrimonio culturale, ma anche una riqualificazione degli edifici che ospitano le attività di studio e insegnamento e maggiori fondi per la ricerca

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Senza la cura della filiera della formazione artistica non riusciremo a mantenere il prestigio che abbiamo ereditato dalla storia. L’investimento è l’alter ego della cura: senza l’uno non c’è l’altra. E per investimento non s’intende solo la predisposizione di misure economiche, ovviamente necessarie, ma soprattutto l’attivazione dell’impegno – sia pubblico che privato – nella manutenzione attiva della nostra identità culturale, anche attraverso un’etica incisiva dell’alta formazione artistica e musicale, adesso affidata a un destino di inesorabile residualità.

«Se nasci, ti nutri, cresci, interagisci con l’ambiente e con gli altri, possibilmente ti riproduci, e poi muori, e insieme a molti altri tuoi simili morituri appartieni a una popolazione che evolve nel tempo, allora sei vivo». Questo scrive Telmo Pievani nel suo “Imperfezione, una storia naturale”, sottolineando che fragilità e paradosso sono gli elementi costitutivi della vita stessa, sotto il dominio ineluttabile dell’imperfezione.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, in un’ottica di Europa “solidale”, dovrebbe avere una struttura in grado di costituire – a vari livelli – la solida ossatura di avvio al difficile percorso di rinascita economica e culturale dopo la pandemia.

L’atteggiamento più utile da assumere, per un efficace colpo di reni resiliente e per un’effettiva ripresa concertata, è quello del “cannocchiale rivoltato” di pirandelliana memoria, ovvero il guardare le cose vicine come se fossero lontane. Quest’ottica di chiarezza e lontananza, fuori dalle emozioni ma non senza emozioni, sarà forse in grado di aiutare a pensare strategie progettuali inclusive usando del trauma la sua parte feconda di reificazione: dal piano delle idee alla concretezza dei fatti. E questo nell’idea di costruire per le nuove generazioni italiane ed europee non solo un terreno fertile per lo sviluppo, ma anche gli strumenti culturali efficaci per coltivarlo. Questi strumenti devono passare da nuove linee di riforma reale anche nel settore dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (AFAM), per riaprire strategicamente tutti i colli di bottiglia che hanno generato cristallizzazioni sterili e stasi di fatto in quest’area.

Il corpus di interventi articolati del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, per ciò che riguarda l’Alta formazione artistica e musicale, dovrebbe essere strettamente connesso al Programma Nazionale per la Ricerca 2021-2027, sia per quanto concerne il patrimonio culturale, che per le discipline storico-artistiche e anche per l’ambito della creatività, design e Made in Italy.

Digitalizzazione e innovazione
Uno dei 3 macro-assi – quello della digitalizzazione – dovrà contenere misure per generare innovazione anche nelle Accademie di Belle Arti, Conservatori, Accademia d’Arte drammatica, Isia e Accademia Nazionale di Danza, con tutto il plesso di azioni reali da attivare, non solo nell’ambito della gestione dell’amministrazione ma anche nell’ambito della digitalizzazione del patrimonio culturale in senso lato.

Accanto alla digitalizzazione – ormai termine totem e factotum – della macchina amministrativa “indigente”, è necessario intervenire, nelle AFAM, anche sotto il profilo dell’organizzazione della didattica e delle sue strategie.

Nella prima fase di questa pandemia virale, le AFAM hanno riposizionato le loro attività e hanno messo in gioco un imponente lavoro per affrontare le difficoltà della formazione artistica utilizzando gli strumenti primordiali della didattica a distanza. Anche se questa arriva a coprire, in modo più o meno claudicante, l’80-90% delle istituzioni, bisogna continuare a dire – come refrain catartico – che il cosiddetto digital divide infrastrutturale ha creato e continua a creare forti discontinuità a macchia di leopardo. Siamo lontani anni luce dalla cosiddetta Società dei Gigabyte.

Il Covid ha inventato un nuovo tempo della coniugazione dei verbi: il presente remoto, ovvero un presente appartato, distante, solitario. Un presente solingo, strumentale, transitorio e a più fasi. Il presente remoto è stato (e sarà) – come noto – utilizzato appieno nell’area della formazione, come deus ex machina, anche nella didattica a distanza delle istituzioni Afam. Il nuovo assetto docente-discente segue la logica del presente (in) remoto, in cui bisogna sottolineare che la distanza non è purtroppo una condizione neutra: nel viaggio telematico dei dati, affinché essi possano arrivare rocambolescamente a destinazione, si perdono – tra i bit – pesi importanti come linguaggio non verbale, dinamiche di relazione, tempi di reazione, concrezioni materiche nel caso delle arti plastiche, etc.

Essa modifica geneticamente, al di là dei (comunque necessari) dispositivi tecnologici, il cuore stesso del modello classico della didattica, ovvero la contiguità. Il toccare insieme una materia, soprattutto nelle Accademie, è quasi un elemento liberatorio che attiva l’adrenalina della creatività e nutre la ricerca sui linguaggi artistici.

Distanza, dunque, è diventato un termine-feticcio, un vocabolo-dispositivo, una parola-arma, un concetto-soluzione, un lemma antisociale, una parabola salvifica.

Se immaginiamo due punti, secondo i vocabolari, la lunghezza del tratto di linea retta che li congiunge definisce la distanza. Seguendo questa indicazione, la distanza è allora qualcosa che, paradossalmente, unisce, essendo la misura del percorso tra due estremi. La nostra azione dovrà consistere allora nel percorrere questa lunghezza senza perdersi.

L’AFAM ha costruito dal nulla il primo lungo miglio della didattica a distanza.
Un florilegio di piattaforme, più o meno basiche, sono state messe a disposizione degli studenti. I docenti (artisti, musicisti, intellettuali, etc.) si sono cimentati con strumenti informatici che sono diventati il modo di colmare proprio la distanza ineludibile di cui sopra, viaggiando sulle autostrade digitali o, meglio, sulle carrettiere digitali nazionali.

Hanno accorciato le distanze da lontano, seppur dietro mille peripezie tecniche, doppi salti mortali di didattica al bit, prese al trapezio di giga affaticati, salite vertiginose su pertiche di pensiero artistico ribelle, e altre pratiche di magia binaria: il tutto condito da abbuffate di algoritmi di ogni genere.

Sarà necessario uno sforzo immane per tentare, in tempi relativamente brevi, di colmare questo iato tra il paese iperconnesso e il paese ipoconnesso, dove tutti gli studenti dovrebbero tentare di raggiungere un medesimo approdo ma senza poter sfruttare i medesimi mezzi, con l’aggravante che il divario col sud viene amplificato oltremisura.

Problema tanto più grave quanto più questa condizione si protrarrà nel tempo. Nel caso in cui il digital divide non venisse accorciato, le distanze aumenteranno, col rischio di perdere per strada non solo una parte degli studenti ma anche quella parte di futuro legata alla qualità della formazione terziaria: in tal caso, non più didattica a distanza ma distanza dalla didattica. In questo quadro sarà importante investire nelle infrastrutture tecnologiche delle istituzioni AFAM, nell’ottica che digitalizzazione non è solo un passaggio tecnico dall’analogico al digitale, ma soprattutto un salto quantico sullo stesso modo di pensare le arti ancor prima di progettarle, produrle, conservarle.

Edilizia, riqualificazione edifici.
Un’altra area importante su cui intervenire è quella dell’edilizia e della riqualificazione degli edifici. Sarà fondamentale un’azione capillare sull’efficientamento energetico e sulla riqualificazione degli edifici che ospitano le AFAM. Molti di questi edifici storici sono strutture tutelate dalle soprintendenze e questo, a volte, complica anche gli interventi più logici e funzionali, allungandone i tempi a dismisura.

Sarà infatti importante capire come si può pensare il post-lockdown alla luce degli indici di affollamento, soprattutto nei laboratori, in relazione alla tipologia di attività didattica svolta in presenza dalle istituzioni dell’Alta Formazione Artistica, Coreutica e Musicale.

Affrontare le attività collettive minimizzando la compresenza degli allievi, o consentire anche a piccoli gruppi di frequentare i laboratori, comporta una gestione molto difficile in ordine alla sicurezza. Se qualcuno ha visitato un’Accademia di belle arti o l’Accademia d’arte drammatica può capire come i laboratori hanno – spesso – necessità di spazi anti–Covid davvero importanti che, ad oggi, ben poche istituzioni possono permettersi.

Per questo tipo di laboratori, c’è da supporre un necessario incremento variabile, a seconda delle attività, dei metri quadri a persona per ciascuna voce di utenza. Ma per riconfigurare gli spazi laboratoriali serve un metaprogetto che, innanzitutto, modifichi secoli di buone pratiche e la forma mentis che queste hanno generato. Serve un pensiero capovolto, una psicologia trasformata.

Non siamo di fronte, dunque, solo a una questione di fondi – che saranno ovviamente fondamentali e che bisognerà chiedere a gran voce nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – ma sarà anche una questione di nuovi paradigmi della conoscenza e della produzione artistica. Il dramma che il paese sta vivendo, con le perdite di esseri umani è anche un dramma della perdita delle coordinate geografiche che la mente – oltre che il corpo – era abituata a frequentare.

Labirinto e nebbia sono i compagni di questo viaggio, ma nell’ambito della formazione terziaria artistica il vocabolario dei sensi può essere piegato a nuove formule alchemiche che non sapevamo di poter sperimentare. Se ciò che avviene nei processi di produzione artistica si snoda nello spazio, non si può non intervenire sulle strutture ospitate da esso.

Sicurezza non è una parola commutabile.

L’impresa della ricerca e sostenibilità nelle istituzioni AFAM
Il terzo punto di cui tener conto nella costruenda bibbia del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è l’impresa della ricerca e sostenibilità nelle istituzioni AFAM.

Non possiamo non ribadire la nota l’opinione condivisa secondo cui investire in ricerca è lo strumento principe per far ripartire innovazione ed economia. I dati che la comunità ha a disposizione sono però al di sotto delle aspettative e non sono confortanti. E in ambito AFAM sono addirittura all’anno zero.

Nel piano ambizioso e condivisibile di rilancio della ricerca va collocato, nella giusta dimensione, il sistema dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica. Fino ad oggi si registra che i fondi per la ricerca sono per le AFAM una sorta di miraggio, anche se i primi passi, con i PRIN, sono stati attivati.

Il compito della ricerca che la legge n. 508/99 (legge più glamour che di sostanza, essendo a costo zero) assegna alle Istituzioni AFAM non è altro, a ben vedere, che il riconoscimento normativo di ciò che le AFAM sono sempre state. I corsi tenuti nelle istituzioni dell’Alta Formazione hanno da sempre il carattere, da un lato, di laboratori creativi e permanenti nei quali gli allievi vengono stimolati a sviluppare da un lato la loro personale “ricerca artistica” e, dall’altro, di ricerca teorico-critica.

Gli strumenti normativi devono essere modificati. Bisogna agire su di essi in modo che tra ricerca e le sue condizioni per assicurarla si affermi il necessario parallelismo. Michael Young nel 1958, nel suo volume intitolato “L’avvento della meritocrazia”, scrive: «Sono loro – gli statisti e grandi teorici politici – che hanno costretto il Tesoro ad accettare la nuova concezione dell’economia: quella per cui la spesa per l’istruzione è alla lunga il solo modo per incrementare il reddito nazionale».

È questo il tema centrale con cui bisogna fare i conti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
La mission delle istituzioni AFAM è racchiusa in tre sintetici ma fondamentali pilastri: didattica, ricerca, e produzione artistica (con risvolti da “terza missione”). In tal senso le Accademie, i Conservatori, gli Isia, l’Accademia di danza e l’Accademia di Arte drammatica hanno da sempre lavorato per costruire le solide fondamenta di un’idea di sviluppo concentrata soprattutto nell’aprire la conoscenza all’innovazione e alla produzione. Abbiamo superato la fase pionieristica ed è ora di lavorare per consolidare le strutture di base, affrontando – insieme agli attori sociali e politici – i cruciali problemi di “governo della crescita” nell’ambito della ricerca.

Inoltre, di fondamentale densità è il rapporto tra ricerca e sostenibilità. Si sa che la diffusione di una cultura improntata al benessere equo e sostenibile è una delle sfide decisive della nostra epoca da cui da cui dipenderà il volto e la qualità delle nostre relazioni con l’ambiente. Ma questa sfida non potrà essere vinta solo sul piano delle innovazioni tecnologiche, ci vuole infatti un consenso per la loro introduzione, soprattutto se questa è in grado di rompere con atteggiamenti e aspettative radicati nel tempo, producendo una nuova concezione di comunità attiva.

Il piano legislativo da solo è ugualmente insufficiente, perché un’“ecologia punitiva” – o comunque burocratica – è destinata a suscitare crisi di rigetto. La battaglia per uno sviluppo meno distruttivo richiede una larga accettazione da parte delle popolazioni e questo avviene necessariamente soprattutto sul piano dell’immaginario.

Le novità, di ogni genere, si diffondono nella società – con efficacia – quasi sempre attraverso la potenza immanente dell’immaginario che, come un cercatore d’oro, trova sempre nelle persone il modo per estrarre il pulito che c’è in ognuno di noi: con naturalezza e senza imposizioni.

Le soluzioni che possono proporre gli economisti, gli ingegneri, gli architetti o scienziati debbono non solo convincere sul piano pratico, ma devono anche “apparire desiderabili” e quest’immaginario si crea e si rinnova largamente nella cultura: nella letteratura, nel cinema, nel teatro, nelle arti visive, nella musica. Basti pensare a tutte quelle innovazioni che oggi ci appaiono spesso molto discutibili perché improntate da un’idea di crescita sfrenata che non si cura né delle risorse limitate né delle conseguenze per la salute dei produttori, dei consumatori e dei cittadini.

Innovazioni che si sono diffuse nella seconda metà del Novecento e che sono state accettate anche grazie alla “propaganda” in favore di uno nuovo stile di vita: impresso da tutti i media di quel periodo. Anche le arti visive vi hanno contribuito, spesso involontariamente o inconsciamente, spesso con il loro culto della novità, del “progresso”, del continuo cambiamento celebrato in quanto tale.

Ma allo stesso tempo, c’erano in quel periodo degli artisti come Giuseppe Penone e Joseph Beuys, l’arte povera e Fluxus che creavano le premesse di un’attenzione al mondo naturale, a un approccio slow, all’uso responsabile delle risorse e alla “sostenibilità”.

In questa prospettiva, avrebbe senza dubbio un effetto catalizzatore mettere a sistema tutte quelle innovazioni – di natura interdisciplinare o, come diceva qualcuno, indisciplinare (nel senso di strappare le discipline ai dogmi che spesso le imbrigliano e le cristallizzano) – che devono diventare vere e proprie piattaforme per salvare il presente e il futuro dalla religione del nuovismo a tutti costi (e a qualunque costo): religione che ha generato lesioni sociali e semidistrutto il pianeta.

Ecco, prima che la realtà diventi un «deserto del reale», come ci indica Slavoj Žižek, bisogna stabilire un patto tra i soggetti attivi e coinvolti nell’impresa della ricerca con un unico comune denominatore: alzare il livello della ricerca e aumentare i suoi fondi, sotto il comune denominatore della sostenibilità.

Ci si augura che con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza si possa subito uscire da questa paludata desert zone e si passi all’azione concreta, anche perché il tema dell’internazionalizzazione è strettamente connesso alla ricerca. Gradualmente bisognerà attivare quelle misure di microchirurgia vascolare per mettere in circolo quanto fino ad ora occluso nei vari dispositivi, al fine di accostarsi con pari dignità nell’ambito della ricerca in generale. Ripeto: con gradualità sostenibile. E in questa gradualità dovrà entrare – giocoforza – anche la filiera della valutazione dei progetti.

I meccanismi di genesi della ricerca, nell’arte e nella scienza, sono alimentati dal medesimo paradigma di fondo, che non solo ne garantisce l’esistenza in vita ma li include entrambi nel suo cerchio fecondo: in cui “comprendere e creare”, non sono in antitesi ma sono le facce di un unico segno.

È necessario, utilizzando il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, strappare l’istruzione artistica di livello terziario al destino della siccità, che rischia di inaridire non solo le menti e le anime colte ma tutte le dinamiche produttive (anche di Pil) che coinvolgono le strutture culturali ed artistiche del Paese. Oltre all’immenso patrimonio artistico da salvaguardare e da valorizzare, c’è anche un mondo di imprese creative-driven che ha necessità di artisti-ricercatori in grado di alimentare, modificare e – perfino – sovvertire l’asset strategico, e molto articolato, del Made in Italy che purtroppo, al momento, è imprigionato nello scrigno di una suggestione storicizzata.

Saranno necessari, per l’allocazione delle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, dei bravi “architetti delle scelte”, per creare strategie comportamentali gentili capaci di indurre la politica a fondare un’idea di istruzione – anche artistica – soprattutto come una robusta logica della crescita economica: un investimento, dunque, non un costo sterile.

E, nell’arte e nella formazione artistica, si tratta di un investimento ineludibile che riguarda la costruzione di quella identità culturale nazionale che ormai sembra ridotta a essere solo la chiave concettuale di un’azione politico-amministrativa, spesso, di tipo esclusivamente enunciativo. Adesso non ci sono più alibi. Questa inedita economia della possibilità non va sprecata.

È necessario immergerla e battezzarla nel mare delle mille necessità da contemperare, cercando di scardinare il deserto delle intenzioni e l’illusionismo della retorica sterile. Non è più tempo per indugiare nelle narrazioni, serve un patto di realtà con la natura dei problemi e con l’identificazione – spesso incautamente fluida – dell’equità: questa sì desiderosa di essere tracciata con sostenibilità.

Antonio Bisaccia – Presidente della Conferenza Nazionale dei Direttori delle Accademie di Belle Arti e Accademia nazionale d’Arte Drammatica.

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