Ho seguito il dibattito sul “Futuro del governo Draghi” organizzato da Linkiesta e condotto da Christian Rocca, poi ho letto il commento di Mario Lavia che ne ha colto i principali aspetti, compresi i limiti. I componenti del panel sono persone che esprimono certamente un “pensiero” (magari non sempre lo stesso) in un contesto in cui questa merce sembra essere sparita dal mercato della politica; ma le loro opinioni, tuttora diverse, riguardano questioni di grande rilievo difficilmente superabili in un arco di tempo breve (le eventuali elezioni dell’anno prossimo) e in larga parte requisito dall’emergenza sanitaria.
Ne deriva – del resto lo hanno ammesso tutti – che il governo Draghi riesce a garantire ai “cespugli” riformisti e liberaldemocratici una copertura politica e una causa comune, tanto che se ne auspica una durata il più lunga possibile, almeno fino alla conclusione della legislatura (un traguardo che ora – dopo le “digressioni” di Matteo Salvini sullo scenario europeo – sembra troppo ambizioso).
Dal dibattito sono emerse posizioni differenti sia tra il gruppo dei piccoli partiti e movimenti, sia tra essi e i riformisti del Partito democratico (autorevolmente rappresentati da Giorgio Gori e Irene Tinagli). Tra i primi non vi è accordo sulla “forma” che la nuova forza politica dovrebbe assumere: un’organizzazione unitaria (partito?) fondata da un’assemblea costituente oppure una federazione di soggetti autonomi?
Emma Bonino non fa solo parte della storia, ma della leggenda della politica italiana. Nelle elezioni per il Parlamento europeo nel giugno del 1999 una lista radicale che portava il suo nome ottenne lo storico risultato dell’8,5 per cento qualificandosi come la quarta forza politica nazionale. È singolare, però, che sostenga la costituzione di una federazione «perché i partiti non nascano dall’alto», proprio lei che è sempre appartenuta a partiti nati come Athena dalla testa di Zeus.
Vi è poi la questione del sistema elettorale: maggioritario o proporzionale? Nel dibattito è sembrata prevalere (grazie alla convergenza dei dem con Bonino) l’opzione maggioritaria, come garanzia di stabilità, governabilità e correttezza con l’elettorato; dimenticando però che questo sistema non ha mai garantito questi obiettivi. Nella c.d. Seconda Repubblica, le coalizioni vittoriose, se di centro sinistra, sono finite in balia di Fausto Bertinotti (quando è andata bene) e di Franco Turigliatto (nel 2006 l’Unione era composta da 17 partiti).
Quando l’Ulivo vinse le elezioni, gli italiani votarono per Romano Prodi e poco dopo trovarono Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, protagonista di un’operazione di grande trasformismo a fronte della quale Giuseppi, nel 2019, è sembrato un dilettante. Silvio Berlusconi è stato messo in difficoltà dai suoi alleati: Da Umberto Bossi in occasione del suo primo governo e da Gianfranco Fini nella XVI° legislatura. Quando l’allora presidente della Camera ruppe l’alleanza nel Pdl e fondò Futuro e Libertà (a proposito di partiti nati dall’alto), il governo del Cav. dovette andare alla ricerca di una maggioranza in cambio di nomine a sottosegretario.
Adottare adesso una legge maggioritaria – ad avviso di chi scrive – significherebbe sprecare l’opportunità che il governo Draghi ha offerto al sistema politico: quella di liberare – in particolare nel centro destra – i singoli partiti dal vincolo delle alleanze. Un vincolo che sarebbe immediatamente ripristinato se, in un sistema maggioritario, dovessero costituirsi e competere le grandi coalizioni.
Come si fa a non vedere che, nel nuovo quadro politico, il fronte del centro destra è totalmente disarticolato? Forza Italia, nell’attuale maggioranza, può giocare un ruolo smarcato da quello della Lega, che, a sua volta, si muove in una prospettiva politica diversa da quella di Fratelli d’Italia (e possibilmente polemica). Ha ragione Marco Bentivogli: le sole basi d’intesa delle due coalizioni, ricreate artificialmente da una legge maggioritaria, sarebbero tenute insieme dalla resurrezione di un reciproco spirito di crociata, tanto più anacronistico dopo che si è fatto parte della medesima maggioranza.
Poi si pone un altro problema: federazione o partito che sia, la “cosa” riformista (per ora non parliamo di Italia viva e dell’enigma Renzi) sarà disposta a far parte di una coalizione che si basa su di una alleanza (strategica?) tra il Pd e le Stelle superstiti con Giuseppe Conte? Perché, ascoltando il dibattito de Linkiesta, emerge con chiarezza che nessuno nel Pd – nemmeno i riformisti – mette in discussione un’alleanza con il M5S.
La differenza sembra essere nell’intensità del rapporto: non un matrimonio ma un’unione civile. La svolta consisterebbe nell’affermazione di un’egemonia culturale dem sui contenuti che arrivi a spostare il baricentro dell’alleanza sulle istanze riformiste, attente all’area liberaldemocratica. Verrebbe da chiedersi perché questo obiettivo non sia stato possibile durante il Conte 2, quando il Pd e i Cinquestelle riuscivano a trovare intese solo di basso profilo o nel rinvio dei problemi.
Certo, se la novità della segreteria di Enrico Letta si qualifica con lo ius soli e il voto ai sedicenni, non c’è molto da stare allegri. Comunque, è presto per dare dei giudizi definitivi, mentre si è appena avviata la terapia di Mario Draghi sul sistema politico che dovrebbe portare a una legittimazione reciproca di tutte le forze in campo (processo che non si è mai compiuto all’interno della maggioranza di Mario Monti e che non ha retto a lungo in occasione del governo Letta). Se questo obiettivo fosse raggiunto, che senso avrebbe rimangiarselo con una legge maggioritaria che costringerebbe le coalizioni ad affermare ciascuna la propria identità in contrapposizione a quella dell’altra?
Sarebbe bene, però, che i “cespugli” decidessero che cosa vogliono fare da grandi, evitando un duplice rischio: restare piccoli eserciti composti solo da generali e soffrire della sindrome del Partito d’Azione che ha caratterizzato una particolare area politica, rimasta sempre divisa, minoritaria e incapace (o non disposta) a crescere.