La storia è piena di protagonisti nascosti, figure che spesso stanno sullo sfondo pur avendo un impatto evidente sugli eventi e sulle dinamiche politiche, economiche, sociali di un territorio, di una nazione, del mondo. Si muovono nelle pieghe della storia personaggi che hanno avuto un ruolo determinante nell’indirizzare il corso degli eventi in una direzione piuttosto che in un’altra.
Un lungo articolo di New Statesman ricorda ad esempio il giurista argentino Carlos Calvo, che nella seconda metà dell’Ottocento fu uno dei teorici più influenti per gli sviluppi della moderna sovranità nazionale. Nel diritto internazionale la “Dottrina Calvo” stabilisce che un investitore straniero deve presentare le sue richieste, rivendicazioni o reclami alla giurisdizione dei tribunali locali, evitando il ricorso a figure diplomatiche o militari del proprio Stato. In questo modo autorizzava ogni Stato a stabilire le proprie regole politiche, economiche, fiscali.
La Dottrina Calvo costituisce un insieme di norme entrate più e più volte nelle costituzioni latinoamericane e il pensiero del giurista divenne, decenni dopo, combustibile per il movimento anticolonialista che si diffuse rapidamente a metà del XX secolo e che portò a numerosi casi di espropriazione degli investimenti esteri: i governi di molti Paesi del Sud del mondo scoprirono che spesso le loro risorse naturali erano state cedute a investitori stranieri a condizioni estremamente generose.
Nell’articolo firmato da Ben van der Merwe su New Statesman, però, il focus è sulle regole della globalizzazione così come la conosciamo – opposte alla Dottrina Calvo -, sono state immaginate da due personaggi poco conosciuti: Hermann Josef Abs e Hartley Shawcross.
Nell’Europa che usciva a pezzi dagli orrori della Seconda guerra mondiale il processo di Norimberga – e tutti i processi secondari che seguirono – ebbe un ruolo cruciale, per più di un motivo. In questa sede è utile ricordare che proprio in quegli anni gli industriali tedeschi capirono che i beni a loro sequestrati – in qualità di risarcimento – avrebbero dovuto essere protetti legalmente.
Tra loro c’era Hermann Josef Abs, direttore della Deutsche Bank che aveva sorvegliato l’espropriazione di proprietà ebraiche nel Terzo Reich, e divenne un portavoce internazionale per i diritti di proprietà nella seconda metà degli anni ‘50. Tra le altre cose, durante il regime nazista Abs fu anche direttore della IG Farben, azienda produttrice di gas velenosi.
«Percependo la paura che la decolonizzazione aveva ormai messo nel cuore degli investitori che avevano interessi in altri Paesi, nel 1957 Abs presentò una convenzione internazionale che sarebbe stata ribattezzata dal Times “Magna Carta per il capitalismo”: immaginava un mondo in cui gli investitori di tutto il mondo sarebbero stati protetti da diritti di proprietà, applicabili in un tribunale internazionale», si legge nell’articolo di New Statesman.
La proposta di Abs avrebbe dato il via quanto meno a un dibattito globale sui diritti dell’investitore. La sua “Magna Carta per il capitalismo” di fatto obbligava i firmatari ad astenersi da «interferenze illegali dirette o indirette» con il capitale straniero e creava una Corte Internazionale di Arbitrato per giudicare le violazioni. In questo modo gli investitori avrebbero potuto rivolgersi a quella corte senza ricorrere ai tribunali locali.
Per capire il pensiero di Abs si può guardare alla sua considerazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite: per lui era diventata un nemico, complice dei «ladri di proprietà», dal momento che approvava gli espropri senza risarcimento.
Il progetto di Abs trovò una sponda del tutto inattesa in Sir Hartley Shawcross, nobile e magistrato britannico che aveva lavorato come procuratore capo del Regno Unito a Norimberga. Shawcross appoggiò quell’idea, contribuì a diffonderla e a proporre l’adesione alla convenzione a diversi Stati in tutto il mondo.
«Indipendentemente dal fatto che la Banca mondiale agisse dietro le quinte per ordine degli investitori – si legge nell’articolo di New Statesman – i suoi funzionari hanno guidato l’avanzata dell’Investor-state dispute settlement (Isds) dagli anni ‘60 in poi. La strategia della Banca Mondiale era quella di spogliare la Magna Carta dei diritti concessi agli investitori: questi sarebbero stati successivamente reintrodotti attraverso trattati bilaterali di investimento, evitando l’opposizione unita del Sud del mondo. Così ciò che restava era un insieme di regole che disciplinano l’arbitrato e un’istituzione per ospitarlo, il Centro internazionale per la risoluzione delle controversie sugli investimenti (Icsid)».
La strategia è stata un successo travolgente nel Sud del mondo, ma gli stati occidentali sembravano avere poco interesse a incorporare la risoluzione delle controversie tra investitore e Stato – uno strumento di diritto internazionale che garantisce a un investitore straniero il diritto di dare inizio a un procedimento di risoluzione delle controversie nei confronti di un governo straniero.
«I governi tedesco e statunitense temevano entrambi che l’Isds avrebbe minato la loro capacità di perseguire legalmente la rivendicazione di un investitore, ribaltando le delicate strategie diplomatiche della Guerra Fredda. Tuttavia, dal 1968 i trattati arrivarono gradualmente a includere l’Isds nelle loro pagine: nel 1988 erano stati firmati solo 28 trattati contenenti l’Isds, e si preannunciava un nuovo boom», scrive Ben van der Merwe.
A partire dagli anni ‘80 infatti molti Paesi del Sud del mondo persero parte della loro forza economica, politica, giuridica: così come il boom dei prezzi delle materie prime degli anni ‘70 aveva consentito loro di immaginare e richiedere un nuovo ordine economico internazionale, il crollo e la crisi del debito degli anni ‘80 aveva fatto franare il terreno sotto i loro piedi.
Con questi Paesi alla ricerca di nuove fonti di finanziamento, la Banca Mondiale e i governi occidentali li guidarono verso l’Isds, uno strumento che fino a quel momento era stato ampiamente visto dai governi del Nord e del Sud del mondo come un’innovazione tecnica minore.
«Banca Mondiale e governi occidentali promisero che le protezioni molto rigorose dell’Isds avrebbero garantito maggiori investimenti. Ma pochi Paesi in via di sviluppo, tra i tanti che firmarono, avevano un’idea reale della potenza di ciò a cui stavano firmando. Molti dei trattati furono negoziati in pochi giorni, se non ore», scrive New Statesman.
Il governo degli Stati Uniti è stato il primo a scoprire la potenza dell’Isds: nel 1991, con l’Argentina in piena crisi economica e iperinflazionistica – a causa della crisi del debito – Washington offrì un accordo a Buenos Aires: avrebbe ottenuto un trattato bilaterale per gli investimenti (Bit), con aumento degli investimenti interni, ma solo se avesse accettato di iscriversi all’Isds, mandando in soffitta una volta per tutte la dottrina Calvo e bloccando le riforme neoliberiste di Menem nei meandri del diritto internazionale.
Nell’introduzione del suo articolo, Ben van der Merwe ricorda un altro episodio che ha coinvolto l’Argentina, pochi anni più tardi: «Nel 2002 il Pil dell’Argentina si è ridotto del 64%. Un programma di austerity imposto dal Fondo monetario internazionale aveva inasprito la recessione del Paese triplicando i tassi di povertà in tre anni. Quando il governo ha esitato ad attuare ulteriori tagli alla fine del 2001, il Fmi ha ritirato i suoi aiuti e l’economia è andata in caduta libera. Trentanove persone sono state uccise in un’ondata di proteste e scioperi che ha costretto il presidente Fernando de la Rúa a fuggire da Buenos Aires.
La nuova amministrazione portò il Paese fuori dalla crisi, ma per farlo colpì i profitti delle multinazionali straniere, che hanno prontamente chiesto un risarcimento di 80 miliardi di dollari. Queste cause non sono state portate dinanzi a nessun tribunale in Argentina: sono stati convocati tribunali aziendali speciali per ogni caso al di fuori del Paese. I risultati sarebbero dipesi dai trattati bilaterali di investimento dell’Argentina con gli Stati Uniti e le nazioni europee – documenti oscuri e vagamente formulati, firmati sotto gli ordini di Washington negli anni ‘90».
Alcuni ricorderanno ad esempio che nel 2016 le proteste di massa contro l’Isds avevano fatto naufragare il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) e portato a uno sforzo di riforma multilaterale presso le Nazioni Unite.
«Il sistema attuale – si legge nell’articolo – è palesemente insostenibile e irrazionale anche dal punto di vista degli affari: i costi e l’imprevedibilità dell’Isds lo rendono inaccessibile a tutti tranne che ai maggiori investitori: solo l’1% di tutti i compensi da Isds è andato a società con un fatturato annuo inferiore a 1 miliardo di dollari. Se il presidente Biden si unisse all’Unione europea per sollecitare la nascita di un tribunale permanente, questi problemi potrebbero essere risolti. Ma rappresenterebbe anche la realizzazione di un sogno fondamentalmente in contrasto con le promesse di democrazia e decolonizzazione».
È un problema di difficile soluzione: «Gli investimenti a lungo termine – conclude l’articolo di New Statesman – richiedono stabilità sotto ogni punto di vista, ma la premessa della libertà di un governo è il diritto di chiedere il cambiamento. Al di là dell’Isds, l’isolamento della politica economica dalla politica democratica si è evoluto rapidamente negli ultimi decenni: dall’indipendenza della banca centrale, al Fiscal Compact dell’Unione europea fino alla diffusione dei paradisi fiscali. Questo ha consentito contemporaneamente la globalizzazione e favorito la nascita della sua nemesi populista».