L’idea di selvaggioPerché i documentari sulla natura sono un mezzo inganno

Alle semplici storie di animali si affiancano paesaggi mozzafiato e immagini ottenute con una risoluzione impossibile per i nostri occhi. Ma il vero problema è che nelle ultime produzioni si fa di tutto per restituire un paesaggio incontaminato, evitando in ogni modo di includere l’uomo

Fotografia di Geran de Klerk, da Unsplash

Forse questa sarà ricordata come l’epoca d’oro dei documentari naturalistici. Produzioni come “Planet Earth II” e “Blue Planet II” sono state viste da più di un miliardo di spettatori in tre anni. Nel 2022 uscirà, sempre a firma dell’unità specializzata della BBC, la Natural History Unit, anche “Planet Earth III”. Nel frattempo c’è stato “A Perfect Planet”, realizzato dalla Silverback Films, società formata da transfughi della Natural History Unit che ha contribuito a creare anche “Our Planet”, Il nostro pianeta, trasmesso da Netflix.

In mezzo a tutto questo svetta la voce e la figura di David Attenborough, decano del genere e guida instancabile (ha 95 anni), con le sue spiegazioni, nei fantastici paesaggi della natura.

Il problema, sostiene questo articolo di Emma Marris pubblicato sull’Atlantic, è proprio quello: le immagini dei documentari sono meravigliose. Anche troppo. Il format – storie semplici di animali inframmezzate da scenari mozzafiato – funziona, non solo perché offre una via di fuga temporanea dalle costrizioni della pandemia (anche nel 2019 il suo successo era spiegato così, solo che allora i problemi erano Donald Trump e la Brexit), ma anche perché permette di accedere a un mondo stupendo e incontaminato. Ma, come spiega l’autrice dell’articolo, falso.

La cosa che si nota subito, proprio perché nei documentari non compare quasi mai, è l’assenza dell’essere umano. Non ci sono persone né segni dell’attività umana. Niente tralicci, strade, pali della luce. Il regno animale sembra muoversi in un’era pre-umana (o pre-civiltà) di fatto immaginaria, un universo parallelo lontano dalla realtà.

Seguono poi i trucchi adottati in post-produzione. Le riprese degli animali sono molto spesso fatte a grande distanza dalla scena per cui è difficile catturare anche i rumori. Quasi sempre vengono aggiunti dopo: a volte si utilizzano altre registrazioni, a volte li si produce in studio, grazie all’aiuto di effetti sonori. Il lacerarsi della carne dell’impala sotto i denti del leone che sente lo spettatore è, con ogni probabilità, un suono di laboratorio, spesso adagiato su un tappeto di cicale che fa tanto savana.

Le immagini sono iper-realistiche. Le lenti impiegate permettono di cogliere particolari che all’occhio umano sfuggono. Visti dal vivo, certi piumaggi appaiono meno lucenti e sfumati. Per non parlare di certe scene di cieli notturni, dove la Via Lattea, grazie anche alla lunga esposizione, compare scintillante e chiara come nessuno ha mai potuto vederla.

La musica fa il resto. È un accompagnamento calibrato, a volte narrativo. Indica l’emozione da provare (paura, gioia, serenità) e allude anche all’interpretazione da dare al contesto (quale documentario non accompagna i movimenti dei pinguini con musiche buffe e saltellanti?).

Il risultato, scrive Marris, è che per milioni di persone che vive in città, questa è l’idea di natura. Una realtà bellissima e inaccessibile, selvaggia e incontaminata – senza tutte le cose meno fotogeniche, come il freddo, le zanzare, il fango e le lunghe ore in cui gli animali non fanno proprio nulla. Soprattutto, senza esseri umani.

È un regno di fantasia, costruito con forzature a volte eccessive (nel 2013, il documentario della BBC “Africa” era stato criticato perché non c’era nemmeno un africano), cosa che lascia pensare che esistano ancora, soprattutto in Africa, ampi spazi selvaggi e dimenticati (che ci sono, certo. Ma sono controllati e vigilati proprio dagli esseri umani)

Tolto l’uomo, insomma, scompare anche la sua azione sull’ambiente. Non c’è traccia di inquinamento, di emissioni, di cambiamento climatico, di deforestazione. Questo non vuol dire, continua Marris, che ogni documentario sulla natura debba trasformarsi in un predicozzo sulle conseguenze del climate change. Ci mancherebbe.

Il problema vero è un altro, però. Cioè che questa versione depurata della natura rischia di perpetuare una visione distorta dell’ambiente dalle connotazioni anti-umane. È la vecchia antitesi tra paesaggio incontaminato e civiltà, ormai superata negli ambienti specialistici ma ancora viva nella maggioranza della popolazione e, si scopre, condivisa dallo stesso Attenborough, che si dice nostalgico dei tempi in cui aveva cominciato il suo mestiere, quando la natura selvatica che incontrava si stendeva incontaminata e perfetta.

È una visione ormai datata. Come scriveva lo storico dell’ambiente William Cronon nel lontano 1995, la natura selvaggia (in inglese «wilderness») «non è quell’unico punto del pianeta che è separato dall’umanità. È piuttosto una creazione umana».

Detto meglio, «non è un santuario primordiale dove gli ultimi resti di una natura intatta, in pericolo ma comunque trascendente, riescono a sopravvivere ancora un poco senza la macchia della civiltà». Si tratta, al contrario, di una ricostruzione, nata al tempo delle prime esplorazioni e cresciuta grazie alla consapevolezza ecologica. Un mito.

Anche i documentari, in questo senso, dovrebbero renderne conto sempre di più di questa percezione errata. Potrebbero, per esempio, mostrare insieme agli animali che migrano lungo il corso del Serengeti anche le carovane di jeep piene di turisti che, dalle strade vicine, li fotografano. O le case e i villaggi che sorgono appena fuori dai confini dei parchi nazionali.

Il punto non sarà un’immersione (con il punto di vista di Dio) negli affari degli animali, quanto una lettura dell’interazione tra la natura e l’uomo. Forse sarebbe meno poetico, ma di sicuro più sincero.

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