Recentemente ho conosciuto una signora che avevo già visto in un libro di prima che nascesse.
Di ottima famiglia e ampi possedimenti, col nome che sapeva di gironi danteschi e il modo di chi non ha mai dovuto guadagnarsi niente, la signora era chiaramente uscita da “Radical chic”, l’articolo e poi libro in cui Tom Wolfe raccontava una cena a casa di Leonard Bernstein.
Ma il tratto decisivo nel farmi decidere il radicalscicchismo della signora è stato un altro. Stavo sciorinando il mio solito repertorio, ed ero arrivata al punto in cui sospiro che i radical chic, santo cielo, dovrebbero essere multimilionari con istanze politiche d’estrema sinistra, e invece in Italia l’aggettivo viene usato per definire insegnanti di lettere che dicano che forse è meglio non far affogare i profughi, mica la Giulia Maria Crespi.
Ripetevo il mio compitino, e la signora mi guardava come mucca guarda treno. Una mucca scicchissima e un treno di terza classe: l’incomprensione era totale. Ho miracolosamente intuìto cosa non capisse, ho chiesto, me l’ha confermato: c’è qualcosa di più radical chic che non aver mai sentito l’espressione “radical chic”?
Ci ho ripensato ieri, in una domenica che pareva inglese, e non solo per il cielo bigio: perché sui quotidiani italiani c’era roba da leggere.
Non ci ho ripensato leggendo su Repubblica l’intervista a Giampiero Mughini per i suoi ottant’anni, in cui rievocava tutti i suoi cachet televisivi: non c’è niente di meno radical chic che ricordarti quanto hai fatturato ogni anno della tua vita.
Non ci ho ripensato leggendo sul Corriere l’intervista a Pietro Castellitto, che come tutti gli italiani di buona famiglia ha avuto la giovinezza rovinata da Roberto Calasso: per alcuni fu Hermann Hesse, per lui Friedrich Nietzsche. «Sto parlando come amante di Nietzsche», dice dopo aver definito il MeToo «volontà di potenza», e pare impossibile che nessuno abbia ancora invitato in tv lui e Totti, che nessuno abbia messo su un quiz sfidandoli a distinguere tra motti nietzschiani e slogan di pubblicità automobilistiche.
Non ci ho ripensato leggendo sul Corriere l’intervista a Pietro Castellitto, che come tutti gli italiani di buona famiglia ha avuto la giovinezza rovinata da Roberto Calasso: per alcuni fu Hermann Hesse, per lui Friedrich Nietzsche. «Sto parlando come amante di Nietzsche», dice dopo aver definito il MeToo «volontà di potenza», e pare impossibile che nessuno abbia ancora invitato in tv lui e Totti, che nessuno abbia messo su un quiz sfidandoli a distinguere tra motti nietzschiani e slogan di pubblicità automobilistiche.
Ci ho ripensato leggendo, sul Corriere, l’intervista a Fulco Pratesi, e giuro che il titolo – “Sono un perfetto radical chic” – non è stata una delle prime dieci ragioni. Non mi sarei fidata dell’autocertificazione; “radical chic” potrebbe stare in una versione aggiornata di quella frase che diceva Carrie Fisher in “Harry ti presento Sally”: tutti credono d’avere buon gusto e senso dell’umorismo. Tutti credono d’essere radical chic, e poi sono supplenti di lettere.
Ma ora vi trascrivo alcuni passaggi dell’intervista, e ditemi voi se non rivorreste Tom Wolfe per ritrarre Pratesi.
«Guardi il mio cagnolino, Robin. Un barboncino, molto ecologico. I cani di grossa taglia sono inquinanti» (gli alani come i suv: a voi non verrebbe mai in mente, supplenti di lettere che non siete altro).
«Quanti safari ho fatto. Poi una volta, era il 1963, mi passò accanto un’orsa con tre cuccioli. Mi commosse» (gli altri, gli arricchiti, facevano il Gruppo 63; Fulco si faceva prendere dal sentimentalismo ecologista).
Ha ucciso, dice, «per errore, un anno fa, una zanzara». Imperdonabile, giacché «ogni animale possiede un’anima terrestre».
«Tutti conoscono Dante, ma in quanti conoscono il cervo sardo, per dire?» (come ho fatto a non pensarci prima: voglio un film biografico in cui Pratesi venga interpretato da Fabio De Luigi, lo pretendo, è un delitto negare al pubblico una così perfettissima incarnazione).
I gabbiani a Roma, dice, li ha portati lui, nel ’73. «Mi affidarono una gabbianella ferita, la curammo e la mettemmo nello zoo. Poi lei nidificò, e oggi… be’, sono tanti» (speriamo che quel tassista romano che, prepandemia, mi raccontò che la notte i ristoranti mettevano fuori i sacchi dell’immondizia ma, prima che passassero i camioncini a raccoglierli, i gabbiani arrivavano a squarciarli, rendendo le strade un’impraticabile discarica, speriamo che anche lui, come tutti, non legga i giornali, sennò Pratesi se lo trova sotto casa).
Se pensate che i più zozzi di tutti siano gli aristocratici inglesi, non avete mai conosciuto i radical chic italiani, che hanno scoperto il valore etico del non lavarsi. Racconta Pratesi, a un’intervistatrice che presumibilmente non fa smorfie di disgusto (è un lavoraccio), che non fa il bagno «da anni. La doccia poi mai. Sa quanti litri d’acqua consumiamo ogni anno?». La sventurata chiede allora come si lavi, e il nostro nostalgico delle case senz’acqua corrente dell’Italia del primo Novecento spiega: «Con la spugna sotto le ascelle, e poi ovviamente faccio il bidè. Non serve consumare tanta acqua, basta lavarsi nelle parti critiche con attenzione». Con attenzione.
E poi la volta che ha pianto perché un agnello ha mangiato i funghi velenosi destinati a lui (se solo a casa Capuleti ci fosse stato un agnello goloso); la pesca che sembra meno crudele della caccia perché «non vedi l’occhio del capriolo che ti guarda spaurito»; la madre che aveva un cucciolo di ratto chiamato Baby Boy.
Ho cambiato idea. Credevo di volere un nuovo Tom Wolfe, un nuovo saggio sul mondo dei ricchi, nuove maiuscole e puntesclamativi – ma forse oggi non si può più scrivere così, oggi non sembri più uno che fa la storia della letteratura ma uno scemo dell’internet che infila degli emoji in mezzo al testo. E poi Wolfe è morto, Arbasino è morto: a chi lo fai scrivere, il Pratesi?
Non ci resta che Fabio De Luigi, che un produttore si sbrighi a chiamarlo, questo docudrama s’ha da fare. Con una sola variazione di fantasia: invece di farlo autocertificare radical chic, facciamogli dire che non sa cosa significhi.