Buona forchettaAntropologia del buon gusto italiano

Individualismo creativo, imperativo della buona reputazione e della bella figura sono l’algoritmo che sta dietro la qualità che tutto il mondo ci riconosce. Nella prefazione di Fuori menu (Luiss Up) di Fernanda Roggero, Marino Niola spiega perché il Made in Italy racconta quel che cambia e quel che resta del nostro Paese meglio di qualsiasi libro di storia

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“Tutto il male dell’Italia proviene dall’anarchia, ma anche tutto il bene”, scriveva Giuseppe Prezzolini, autore dell’ingiustamente dimenticato Spaghetti dinner. Centrando in pieno quel nodo inestricabile di consuetudini e abitudini, tendenze e competenze, vocazioni e disposizioni, somiglianze e diffidenze che giace nelle profondità dell’identità nazionale. Da quel nodo discende il made in Italy che, prima ancora di essere un’economia, è un’antropologia, una struttura profonda della mentalità e del costume, un modo di essere e di sentire caratterizzato dalla compresenza di tradizione e innovazione, municipalismo e globalismo, familismo e concorrenza. È l’insieme dei pregi del Belpaese. E perfino dei suoi difetti. Sanificati, emendati, ottimizzati e trasformati in virtù. E questa combinazione tra tipicità e qualità rende la nostra gastronomia particolarmente al passo con il nostro tempo. Che dell’alimentazione ha fatto una passione e un’ossessione.

Oscillante tra cibomania e cibofobia. Ma anche la materia prima di una nuova idea dello sviluppo e della sicurezza, dell’ecologia e dell’economia, dell’equità, della felicità, della salute e del piacere. I grandi temi del presente come la qualità della vita, la difesa dell’ambiente e del vivente, la salvaguardia delle biodiversità, la bioetica animale, la tutela delle filiere corte, la modernizzazione delle produzioni e delle tradizioni, la tutela delle identità e delle comunità, passano soprattutto attraverso le scelte e le sensibilità alimentari. E questo è particolarmente vero in un Paese come l’Italia che del food ha fatto da sempre una delle sue cifre nel tappeto.

Il marcatore identitario dei mille campanili, delle piccole e delle grandi patrie gastronomiche di cui è fatto lo Stivale. Una miriade di eccellenze e specialità che hanno fatto della tavola tricolore un mito planetario. Apprezzato da tutti e imitato da troppi.

E della nostra dieta mediterranea l’immagine stessa del mangiare di domani, buono, democratico, stagionale, conviviale e solidale. Dietro ogni cibo c’è una storia da raccontare. Perché, in realtà, il made in Italy da mangiare nasce da una simbiosi secolare tra capolavori dell’arte e cattedrali del gusto, che sono prodotti di un medesimo genius loci. Dove dietro ogni sapore c’è una vicenda storica e umana, sociale e personale che viene da molto lontano.

Dalle spezierie medievali, dall’orgoglio comunale, dalle botteghe rinascimentali, dal dinamismo emporiale delle repubbliche marinare, dall’orientalismo dei mercanti e degli artigiani veneziani, dagli umori e sapori greci, arabi, normanni e spagnoli del Mezzogiorno, dall’energia trasformatrice dei longobardi e da quella bonificatrice degli ordini monastici, dal raffinato estetismo dei bizantini, dalle sontuose gastronomie di palazzo e dalle talentuose cucine popolari, dai maestri delle corti. Ma anche e soprattutto dalle maestre dei cortili, le anonime regine di quei focolari, aie e barchesse, dove per secoli si è esercitata l’anonima sapienza contadina, l’umile creatività delle donne, costrette a fare le nozze con i fichi secchi trasformando la scarsità in bontà, l’indigenza in eccellenza. È questo il minimo comune denominatore culturale delle piccole patrie alimentari, di ieri e di oggi, che sono le capitali diffuse del made in Italy.

È questo mormorio del tempo il vero plus dei prodotti fatti all’italiana. Che riflettono passato e presente di un Paese dove ogni cinquanta chilometri si cambia nazione. Dove ogni città, ogni provincia possiede una vocazione, una tradizione, una cucina, un codice estetico ed estatico, un gusto tutti suoi. Dove però il campanile diventa terroir, trasformando le differenze in tipicità, il locale in glocale, le tradizioni in vocazioni. In fondo l’Italia non è che un sistema di differenze, che diventano altrettanti segni ad alta definizione, richiestissimi da un consumo globale che cerca di scongiurare lo spettro dell’omologazione, della merce uguale a sé stessa in ogni angolo di mondo. È il caso della pizza, del Parmigiano e di altri loghi planetari dell’Italia da mangiare. La prima, partita dai vicoli di Napoli dove era un pronto soccorso dello stomaco, il minimo di sussistenza della plebe più diseredata, è diventata il comfort food più diffuso del pianeta, insieme alla pasta. Lo stesso dicasi per il re dei formaggi, così famoso che Giovanni Boccaccio, nel Decamerone, immagina il mitico Paese di Bengodi, quello dove chi più mangia più guadagna, come una montagna di Parmigiano da cui piovono maccheroni e ravioli.

La forza del Tricolore, a tavola come altrove, sta nella sua unità plurale che ne fa un sistema di differenze, regionali, provinciali, municipali, paesane, succose, saporose, schiette che si tengono insieme, come le maschere della Commedia dell’Arte, vero laboratorio dell’identità nazionale. E che all’estero fra Seicento e Ottocento veniva chiamata semplicemente Commedia Italiana perché, dicevano i teorici del teatro barocco, combina “lazzi napoletani e soggetti lombardi”, dove i termini napoletano e lombardo riepilogavano le due metà del Paese. Il Nord e il Sud, ma pure l’Oriente e l’Occidente, la città e la campagna, la terra e il mare.

A tavola e non solo. In realtà, la Sicilia e la Val d’Aosta sono due mondi gastronomici e due universi antropologici. Diverse come la pasta con le sarde lo è dalla fonduta. Così pure tra il Friuli e la Toscana c’è la stessa distanza che c’è fra l’acidità della brovada e la dolcezza della ribollita. E la differenza non è solo fra Nord e Sud. Torino in cucina è lontana da Trieste almeno quanto lo è da Napoli. Tra un brasato al barolo, una jota triestina e un pacchero coi pomodorini del piennolo vesuviani ci sono di mezzo l’influenza francese, il lascito austroungarico, l’eredità borbonica con in più quel riverbero di Levante che illumina l’Adriatico. Non solo geografia, dunque, qui è soprattutto la storia a fare la differenza.

Perfino la categoria della pasta, logo identitario del mangiare all’italiana, guardata più da vicino si polverizza in una gamma infinita di variazioni locali. I delicati tajarin piemontesi, le impalpabili sfoglie medio- padane, i sensuali tortellini emiliani, i bruschi pici toscani, i sinuosi bigoi veneti, gli schietti ciarsons carnici, i generosi chitarrini abruzzesi, la sobria fregula sarda, i gattopardeschi anelletti siciliani, le contadine orecchiette pugliesi, i sorprendenti paccheri partenopei, i ruvidi pizzoccheri valtellinesi, le morbide fettuccine romane, i barocchi cannelloni sorrentini, le guizzanti trofie liguri, le rutilanti sagne ncannulate salentine, gli inconsutili Campofilone marchigiani, i festosi cappelletti romagnoli. Ogni formato un carattere, una cultura, una tradizione.

(…)

Individualismo creativo, imperativo della buona reputazione. E della bella figura. Sono l’algoritmo che sta dietro la qualità e la bontà che tutto il mondo ci riconosce e ci invidia da sempre, perfino quando ne stigmatizza le esagerazioni edonistiche. Perché è proprio da un principio di piacere spinto all’estremo che scaturiscono quell’attenzione straordinaria per le questioni di affinamento, per i dettagli maniacali, per i particolari minuti che caratterizzano le manifatture italiane, alimentari e non. Non è un caso che i grandi protagonisti del made in Italy abbiano tutti in comune un’arte della finitura, un ideale di compiutezza dell’opera sempre vicinissimo all’alto artigianato, qualche volta all’arte tout court.

In realtà il made in Italy racconta quel che cambia e quel che resta del nostro Paese meglio di qualsiasi libro di storia

Fuori Menu, Luiss Up

Da “Fuori menu – Gli imprenditori che hanno rivoluzionato il gusto made in Italy” (Luiss University Press), di Fernanda Roggero, 170 pagine, 17 euro

*Fuori Menu è il secondo titolo di Bellissima – la nuova collana Luiss University Press interamente dedicata al Made in Italy e diretta da Nicoletta Picchio

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