Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io vado a rileggermi le prime dieci righe di Addio alle armi. Guardo quelle quattro virgole con l’invidia che riservo solo a chi nel 2011 ebbe la prontezza di riflessi di comprare la gonna con le banane di Prada.
Quando pubblicò Addio alle armi, Ernest Hemingway aveva trent’anni. Era l’anno in cui scriveva a Francis Scott Fitzgerald: «L’estate è un momento scoraggiante per lavorare – Non senti la morte incombere come accade in autunno quando i ragazzi si danno davvero da fare con carta e penna». Era l’età in cui aveva già superato la fase solito stronzo: «E cosa ne fu di lui? La fama, fu di lui. Veterano di guerra prima dei vent’anni. Famoso a venticinque. A trenta, un maestro», sintetizzò in versi Archibald MacLeish (per fortuna sono tutti morti e non possono strozzarmi per aver malamente tradotto le loro citazioni).
A un Hemingway trentenne di oggi, un editor tenterebbe di movimentare la punteggiatura? Forse no, ma di sicuro su Twitter ci sarebbe qualcuno che fotografa l’incipit di Addio alle armi borbottando che ’sto Ernest non sa usare le virgole.
Evidentemente non è un’ossessione solo mia: la prima pagina del manoscritto di Addio alle armi è la prima immagine di Hemingway, il documentario che la tv pubblica americana sta mandando in onda sul romanziere che cambiò l’arredo: lo dice uno degli scrittori intervistati, Tobias Wolff, che quel tizio quasi cent’anni fa ha cambiato i mobili per tutti gli scrittori in lingua inglese a venire, «magari ci sediamo su un bracciolo della poltrona per fare gli originali, ma i mobili sono quelli che ha cambiato lui».
Se fosse un vivente, Hemingway verrebbe bandito dal consesso dei presentabili un giorno sì e l’altro pure, gli revocherebbero i premi nella migliore delle ipotesi e ne condannerebbero l’immoralità nei programmi del pomeriggio nella peggiore.
La volta in cui getta nel gabinetto una foto del marito di quella che poi diverrà la sua quarta moglie, e poi spara alla foto spaccando tutte le tubature e allagando il palazzo.
La volta in cui dice alla terza moglie, col cui talento letterario si sentiva in stremante competizione, «Leggeranno la mia roba quando i vermi avranno finito da un pezzo di mangiarti». Certo, era la verità (Martha Gellhorn è morta alla fine del Novecento, e ancora leggiamo Di là dal fiume e tra gli alberi); ma oggi conterebbe solo che lui era un maschio, lei una femmina, e questo è sessismo, perdindirindina (e non sapete della volta in cui lei andò a Omaha Beach e lui no, e ciononostante il reportage di guerra di lei era nelle pagine interne e in copertina c’era solo il nome di lui; oggi, Martha scriverebbe su Vice la propria dolenza di donna messa in ombra da un uomo meno talentuoso).
C’è tutta una parte, negli anni Trenta, che sarebbe materiale perfetto per un altro capitolo del nuovo libro di Walter Siti (Contro l’impegno, esce la settimana prossima). È quella in cui la sinistra rimprovera EH di non essere uno scrittore abbastanza engagé, dovrebbe smetterla di scrivere «di ubriaconi, e corrida, e pesca», e occuparsi, perdindirindina, di poveri. Finché arriva l’uragano che, nel 1935, ammazza un bel po’ di veterani senzatetto, in Florida, ed erano suoi amici. Perché era un reduce della prima guerra mondiale anche lui, e perché era un ubriacone anche lui. Scrive un reportage che per un attimo lo rende cocco di quelli che l’avevano criticato fino a un attimo prima, quelli che dalla scrittura vogliono l’impegno, le cause, i temi importanti. Finalmente empatia per il proletariato, gongolano. «Nella scrittura non ci sono destra e sinistra: c’è solo scrivere bene e scrivere male», annota lui. (A margine: gli stralci delle lettere di Hemingway sono letti da Jeff Daniels, una delle più strappamutande tra le voci in circolazione).
Citando Siti – che non parla di Hemingway e dei suoi detrattori dal lato proletario della letteratura, ma è come se: «L’arte non è più concepita come un filtro che trattiene l’essenziale della cronaca e lo complica mescolandolo a ciò che cronaca non è, ma piuttosto come un altoparlante che fornisce alla cronaca un maggior potenziale persuasivo e di memoria (“per non dimenticare” potrebbe essere scritto sul frontespizio di molta letteratura presente)».
Il fatto è che Hemingway sapeva d’essere Hemingway ben prima che i vermi cominciassero a mangiarselo. Lo sapeva ed era quello, che non voleva farci dimenticare: che tutto quel che gli capitava era letteratura. Anche se i critici volevano far finta di no e dicevano che in prima persona diventava inefficace, e allora lui faceva quel che nel secolo dopo avremmo chiamato, scusate la parolaccia, autofiction: cambiava i nomi e ci stampigliava su «romanzo».
Lo sapeva quando – dopo la prima guerra mondiale, a Parigi – si presentava a Sylvia Beach chiedendole «Vuol vedere le mie cicatrici?»; e lo sapeva quando entrava a Parigi alla fine della seconda guerra mondiale coi carrarmati della liberazione angloamericana e, quando la Beach chiedeva se si sarebbe fermato, rispondeva «Non posso, devo andare a liberare la cantina del Ritz».
Lo sapeva da giovane promessa, quando scriveva Morte nel pomeriggio, e l’amico di Pamplona era incredulo di venire sputtanato a scopo di letteratura, e lui non capiva il punto, come non l’avrebbe capito Truman Capote sessant’anni dopo: sono uno scrittore, pensavate non stessi prendendo appunti mentre vi frequentavo, pensavate vi rivolgessi la parola per diletto?
Lo sapeva quando aggrediva per strada un critico che, oltre a stroncarlo, aveva osato insinuare si appiccicasse dei peli finti sul petto per sembrare più virile, quando si apriva la camicia e lo sfidava a strapparglieli (un po’ alla Trump quando gli dicevano che si tingeva i capelli, ma quelli di Ernest erano gli anni del bianco e nero: diventavi leggenda, mica ridicola gif), e quando poi lo schiaffeggiava con un libro.
Hemingway era più determinato di Andy Warhol a fare della propria vita un’opera d’arte (e infatti c’è una quantità di sue foto magnifiche che rende incredibile che abbia vissuto nella prima metà del Novecento: era instagrammabile con un secolo d’anticipo).
Dice Michael Katakis, che presiede la fondazione che gestisce le opere di Hemingway, che fece «l’errore di tutti i creatori di miti: illudersi di poter controllare il mito. Divenne stremante essere Hemingway».
C’entra secondo me anche Martha, la terza moglie, quella che non smise mai di detestare e quindi di amare; quella che, il documentario non lo dice ma lo dico io, era tale e quale alla mamma di Hemingway. Quella mamma così mirabilmente descritta: «Papà era devoto alla mamma, la mamma era devota a sé stessa». Quella che, quando tornava eroe di guerra dopo essere stato ferito in Italia, gli diceva di smetterla di battere la fiacca e fare il piacione. Uguale a Martha, che un paio di guerre dopo entra in ospedale, lo vede con la testa fasciata, e si mette a ridere. Quella che esisteva innanzitutto lei.
La mamma che lo vestiva da femmina, acciocché i documentaristi del 2021 potessero superare lo sdegno per l’uso di «nigger» nei suoi dialoghi e dire che però era sessualmente ambiguo proprio come si usa oggi, e con la quarta moglie era tutt’un invertire i ruoli e fare dei giochetti da impazzire.
(Per fortuna tra gli intervistati c’è Edna O’Brien, che mette una lapide sulle fludità postmoderne: «Addio alle armi avrebbe potuto scriverlo una donna: per me è un complimento, per Hemingway sarebbe un insulto»).
Nei momenti di malumore, io cerco di farmeli passare, e di non sembrare uno di quelli che stavano a Pearl Harbor con lui, uno di quelli che se ne sentivano colleghi nel raccontare la seconda guerra mondiale, e dicevano «Era solo un reporter come noi, ma pensava d’essere il secondo avvento di Cristo». Come noi. Loro, cui qualcuno cambierebbe le virgole. Loro, che non hanno mai cambiato l’arredo di nessuna letteratura. Loro, che non sono Hemingway.