«È come Gesù Cristo, un uomo votato al martirio». Quando lo scorso febbraio è nato il governo Draghi il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ha dato la definizione più surreale e allo stesso tempo più adeguata del nuovo presidente del Consiglio, vista la complessità del compito che avrebbe atteso l’ex governatore della Banca centrale europea.
Arrivare a Palazzo Chigi dopo Giuseppe Conte e l’amministrazione giallorossa non sarebbe stato facile per nessuno. Farlo dopo un anno di pandemia è poco meno di una missione impossibile. È per questo che da più parti Draghi è stato dipinto come una sorta di salvatore.
«La politica italiana aspetta sempre un redentore: nell’era moderna questo ha già avuto l’aspetto di Silvio Berlusconi, un uomo che cantava sulle navi da crociera diventato imprenditore nel mondo dei media, uno che ha promesso di ribaltare la politica e invece è finito più volte in tribunale; qualche anno dopo è arrivato Matteo Renzi, il rottamatore che ha promesso troppo e poi è imploso. Ora la salvezza è apparsa sotto forma di Mario Draghi», scrive l’Economist nella sua rubrica Charlemagne dedicata all’Unione europea.
La principale novità portata da Draghi è lo status che può vantare a livello internazionale, che rafforza l’immagine italiana all’interno delle istituzioni di Bruxelles e nelle relazioni con gli altri Stati.
L’Economist cita ad esempio la posizione assunta dal nuovo governo sul blocco delle esportazioni del vaccino AstraZeneca e ha ricordato come lo stesso Draghi in prima persona abbia definito Recep Tayyip Erdogan un «dittatore», dopo il SofaGate con Ursula von der Leyen, Charles Michel e lo stesso Erdogan.
«L’Italia è uno dei membri fondatori dell’Unione europea, il terzo Paese più popoloso e la terza economia più grande. Ma prima di Draghi non sempre gli era riconosciuta questa importanza», scrive l’Economist. Perché il potere all’interno dell’Unione europea risiede sempre più nel Consiglio europeo, con i capi di Stato e di governo degli Stati membri: essere rappresentati in questi incontri da Giuseppe Conte o dallo stesso Berlusconi non ha aiutato l’immagine dell’Italia.
È per questo che anche la stampa internazionale ha visto di buon occhio fin dall’inizio la nomina di Draghi a presidente del Consiglio italiano, ritraendolo spesso e volentieri nelle vesti di salvatore non solo del Paese, ma di tutto il continente.
«Le grandi aspettative nei confronti di Draghi sono comprensibili, ma dovrebbero essere smorzate», si legge sull’Economist. Il motivo è semplice, e riguarda le differenza tra il nuovo incarico e tutti quelli precedentemente ricoperti da Draghi: «Gestire una banca centrale, anche se si tratta di quella europea, non è come governare un Paese: la Bce ha sempre avuto i poteri necessari per combattere le crisi, alla Bce si può tirare una leva ed esce denaro. Nel governo italiano si può tirare una leva e scoprire che non è collegata a nulla».
E non solo. L’immagine forte di Draghi è dovuta anche a una perdita di status di altri leader europei, soprattutto Angela Merkel ed Emmanuel Macron: la cancelliera tedesca si avvia verso la fine della sua parabola, mentre il presidente francese non vede più il continente come il suo palcoscenico, perché le preoccupazioni interne diventano sempre più importanti in vista delle elezioni del prossimo maggio.
È anche per questo che i mercati si sono allineati alle opinioni politiche e mediatiche. All’inizio di aprile il governo ha chiesto al Parlamento un nuovo scostamento di bilancio di circa 40 miliardi di euro: spese necessarie a finanziare le opere «fuori budget» previste dal Recovery Plan, e in parte per coprire i nuovi sostegni per le attività penalizzate dalle restrizioni anti Covid.
La reazione dei mercati è stata quasi impercettibile. Quando invece nel 2018 il governo gialloverde, quello di Movimento cinque stelle e Lega, propose uno scostamento di bilancio dello stesso valore – entrambi del 2,4% del Pil – i mercati reagirono molto negativamente.
«Ma questo privilegio non durerà», si legge sull’Economist. «Draghi non sarà in giro per sempre. Il suo ruolo sarà probabilmente temporaneo e riformare l’Italia non è una cosa che si può fare in poco tempo: andrebbero ritoccate molte cose, dalla Giustizia alla Scuola, fino al Fisco. Tutto quello che può fare Draghi è lasciare un progetto a chi verrà dopo di lui».
Ora, l’effetto-Draghi potrebbe avere molte conseguenze. L’Economist propone due scenari, uno ottimista, uno pessimista.
Nel racconto ottimistico, si legge nella rubrica Charlemagne, il governo Draghi getta le basi per gli investimenti del Next Generation Eu, i 209 miliardi di euro in arrivo da Bruxelles per contrastare la crisi.
Inevitabilmente, se i progetti saranno validi, approvati e messi in cantiere, anche per i governi successivi ci saranno dei paletti da rispettare, un tracciato da seguire e dal quale non potrebbero deviare – altrimenti perderebbero i fondi europei.
Ma poi c’è la visione pessimistica, il worst case scenario. È possibile infatti che il governo Draghi sia solo una parentesi, una tregua più che una redenzione per l’Italia. Non è un’ipotesi azzardata, dopotutto in Italia buona parte dell’elettorato sostiene partiti estremisti come la Lega o Fratelli d’Italia, o il populismo dei Cinquestelle.
E la stessa figura di Draghi è considerata un vantaggio per chi vuole bloccare una maggior integrazione finanziaria europea. «Se Draghi avrà successo – è la conclusione dell’articolo – diranno che un governo stabile e un’integrazione più profonda saranno possibili solo sotto una figura come “Super Mario”. Se invece dovesse fallire, un’ulteriore integrazione sarà pressoché impossibile, sarebbe il segnale per dire che neanche Draghi è in grado di aggiustare l’Italia».