Identificare un adeguato livello di remunerazione per i CEO ed il Top Management continua a costituire una criticità per le aziende, per risolvere la quale a volte la legge della domanda e dell’offerta sembra non funzionare correttamente.
A fronte di molte argomentazioni più o meno populiste a favore di salari “equi” o “morigerati” e di una forbice ristretta tra i più pagati e gli altri, ve ne sono anche alcune a favore delle remunerazioni stellari che in molti settori vengono costantemente assegnate ai massimi dirigenti.
Tra queste ultime sicuramente vi è la fiducia nelle dinamiche del mercato, per cui chi più vale più deve essere pagato, secondo un corretto principio meritocratico che trova soddisfazione nel normale incontro tra la domanda e l’offerta, mentre qualsiasi limitazione penalizzerebbe l’azienda che dovesse applicarla rendendola di fatto incapace di attrarre i migliori talenti professionali.
Questa impostazione ha rappresentato anche il massimo ostacolo all’introduzione di un tetto massimo alla remunerazione dei manager del settore pubblico varato nel 2014 dal governo Renzi. Dando per scontata la natura utopistica dell’aspirazione ad essere “civil servant”, infatti, in molti a quel tempo si chiesero come le aziende pubbliche avrebbero potuto ingaggiare o trattenere i migliori manager, senza soffrire la competizione del settore privato che, non subendo imposizione alcuna, avrebbe potuto costituire un approdo sempre più ambito dal punto di vista dello stipendio.
È chiaro che in questa lettura vi è un fondo di verità, ma è necessario fare qualche altra considerazione per comprendere se quindi sia giusto lasciare interamente al mercato la disciplina di tali dinamiche ed eventualmente quali correttivi si possano applicare alle distorsioni che vanno generandosi.
Innanzitutto va rilevato che, così come nel grado di distribuzione generale della ricchezza nella società, misurato dal coefficiente di Gini, anche sul fronte dei salari si riscontra una crescente polarizzazione. Se infatti verso la metà degli anni ’60 la remunerazione dei CEO a Wall Street equivaleva a circa 22 volte quella del dipendente medio, oggi questo rapporto si attesta su un valore di 44.
Questa forbice che va aprendosi appare anche controintuitiva, se si pensa che in passato la scolarizzazione media era decisamente più bassa e non è infondato supporre quindi che anche il divario di istruzione/formazione fosse più ampio. Invero, nonostante attualmente il dipendente medio possa ormai probabilmente vantare percorsi formativi superiori a quelli dell’epoca, la traiettoria di proporzione rispetto al salario del massimo dirigente è a lui sfavorevole.
Oltre a questo, va rilevato che l’assenza di qualsivoglia meccanismo di “calmierazione” delle remunerazioni rischia di generare una competizione tra le aziende tale da portare ad approcci “rialzisti” (in altri termini a base d’asta) che, slegati dallo stato di salute del settore in cui opera l’azienda, potrebbero costituire veri e propri circoli viziosi. Detto in altri termini è chiaro che se un’azienda dovesse adottare in solitario politiche di remunerazione “virtuose” a fronte di un mercato “senza regole”, quell’azienda sarebbe probabilmente condannata a non attrarre le migliori competenze perché soffocata nella battaglia dei salari.
Scostandosi un attimo dalla visione “manager-dipendente”, basti pensare allo stato attuale del settore “calcio”, dove la guerra degli ingaggi stimolata dai procuratori ha prodotto una situazione in cui, a fronte di squadre sempre più indebitate, spesso non in grado di onorare le scadenze tributarie e sull’orlo della bancarotta, gli stipendi dei calciatori sono progressivamente lievitati nel tempo, costituendo oggi una voce strutturalmente insostenibile del conto economico aziendale, senza che quasi nessuna squadra sia riuscita a ribellarsi a questo meccanismo perverso, pena un declino tecnico a cui sarebbe inevitabilmente costretta dalla “generosità” altrui nel mercato degli atleti.
È evidente che l’esempio appena portato presenti delle peculiarità, ma non è poi molto diverso se si pensa che il settore bancario in Italia non si sottrae alla necessità di remunerare i CEO con salari sempre molto generosi a fronte di una strutturale difficoltà a remunerare il capitale, di ingenti ricapitalizzazioni richieste agli azionisti, di mannaie calate sull’occupazione in termini di numerosità dei FTE.
Se da un lato, infatti, l’incremento della dotazione patrimoniale e la compressione dei margini sta creando una morsa sul conto economico, dall’altro la forbice delle paghe tra i primi livelli occupazionali e gli ultimi si allarga sempre più.
Inoltre un rapporto sempre più penalizzante tra lo stipendio del neo-assunto e del CEO costituisce anche un problema di ascensore sociale, dal momento che a parità di “torta” disponibile (assumendo un basso tasso di crescita che inevitabilmente spetterà ad alcuni settori economici, soprattutto post-Covid) è chiaro che un neo-assunto veda impervio il percorso che potrebbe portarlo a guadagnare cifre significative, perché una parte estremamente importante (a livello proporzionale) delle risorse che l’azienda può spendere per la remunerazione del personale andranno destinate ai primi livelli, costringendo tutti gli altri a scatti estremamente contenuti e riducendo quindi di molto le aspettative di poter salire agilmente sull’ascensore sociale.
Va giustamente sottolineato che nel recente passato sono stati fatti degli sforzi per sanare alcune distorsioni, soprattutto attraverso il ricorso a componenti variabili (legate al risultato) della remunerazione, con diverse declinazioni in termini di tecnicalità (associate al valore aziendale, quali ad esempio le stock option) e di tempistiche di erogazione (spalmate su più esercizi).
Tali tentativi sono sicuramente apprezzabili, ma forse non ancora sufficienti poiché non sterilizzano alcuni rischi gravi. Ad esempio un forte peso della componente variabile della remunerazione può stimolare comportamenti di moral hazard, data l’asimmetria distributiva tra il rischio ed il premio allo stesso. È chiaro infatti che se un CEO assume posizioni dal rapporto rischio/rendimento aggressivo in caso di successo il premio va agli azionisti come a egli stesso, mentre in caso di insuccesso la perdita va ascritta (quasi sempre) interamente agli azionisti.
Le tecnicalità adottate (leggi stock option) hanno sicuramente dei razionali meritevoli, ma di contro presentano controindicazioni quali ad esempio una spinta eccessiva verso lo shareholder capitalism a dispetto degli altri soggetti economici legati alla prosperità dell’azienda, o, nel caso delle quotate, al sempre maggior ricorso al buyback azionario, che a fronte di ingenti porzioni di flottante in mano al management diventa pratica difficilmente decifrabile.
Di contro, ciò che è quasi sempre mancato è un deterrente verso comportamenti predatori od opportunistici, riprova ne è che spesso i CEO hanno percepito generose remunerazioni anche a fronte di loro allontanamenti o di risultati aziendali molto scadenti, quando non addirittura rovinosi.
Quindi il dilemma è senza soluzione? Sicuramente identificare una formula corretta è complesso ma il percorso di discussione intrapreso potrebbe portare in futuro all’introduzione di adeguati meccanismi correttivi. A titolo di esempio si può segnalare la situazione di una delle leghe sportive più ricche e prospere del pianeta, la National Basketball Association (NBA) americana. In quella lega, infatti, è stabilito un tetto salariale per le franchigie e se un Club dovesse superarlo (cosa che capita frequentemente) sarebbe costretto a pagare una tassa sull’eccedenza (luxury tax). Detto in altri termini, chi vuole puntare sulla generosità economica per attrarre i talenti migliori è libero di farlo, ma a fronte di un aggravio più che proporzionale dei costi che va a trasformarsi in gettito a disposizione dell’intera lega.
Condizionare un massimale di remunerazione allo stato di salute del settore, a quello dell’azienda, ai risultati economici e al rispetto di parametri ESG-based potrebbe rappresentare un’altra valida opzione.
Anche un più frequente ricorso ad azioni di responsabilità verso il management in caso di mala gestio (attualmente piuttosto raro) potrebbe aiutare a mitigare eventuali comportamenti opportunistici. Alcuni di questi strumenti, associati ad un equilibrato bilanciamento delle componenti fissa/variabile della remunerazione e ad un’erogazione su più annualità a fronte di conferme nel medio periodo dei risultati del singolo esercizio, potrebbero iniziare a far parte del ragionamento, con l’obiettivo di costruire una struttura di salario che contemperi la necessità di riconoscere adeguatamente il merito senza incentivare comportamenti viziosi, senza depauperare eccessivamente l’azienda e senza frustrare le aspirazioni reddituale degli altri dipendenti.
È chiaro che una formula magica non esista ma è altresì chiaro che lasciare completamente mano libera al mercato rischia di essere approccio inefficiente per le aziende e parimenti penalizzante in termini di polarizzazione economica della società ed aspettative di reddito e qualità della vita delle generazioni più giovani.