Articolo scritto dal collettivo Lorem Ipsum, un’identità giornalistica indipendente, un laboratorio di idee e progetti nel campo dell’informazione
La lampo della valigia si chiude senza troppe difficoltà. Non erano molte le cose da portare per qualche giorno di vacanza. Valentina Grassi, 46 anni, saluta i suoi tre figli e si fa accompagnare in aeroporto, lascerà la Calabria in direzione Treviglio, in provincia di Bergamo, dove da un anno lavora come navigator. «Sono laureata in Economia bancaria, ho lavorato per anni nel campo della rendicontazione di fondi strutturali e come amministrativo, quando si è presentata questa nuova opportunità non ho esitato». Anche se questo significa vivere per diversi periodi lontana dalla propria famiglia: «I bambini risentono della mia mancanza, ma è stata una decisione consapevole, questo lavoro dà modo anche ai miei figli di avere qualcosa in più».
Come Valentina, anche Mario Giaccone ha cambiato vita dopo aver vinto il concorso per navigator. Oggi lavora a Treviso. Ha 57 anni e si è sempre occupato di questioni legate al mondo del lavoro: «Dalla ricerca, all’assistenza tecnica, alla progettazione formativa. Ho un centinaio di pubblicazioni alle spalle e diversi incarichi universitari, ma di questi tempi il settore della formazione è troppo discontinuo». Alla ricerca di maggiore stabilità, ha affrontato e vinto il concorso del 2019 senza neanche il bisogno di studiare – «Per me era pane quotidiano» – ritrovandosi però con un contratto di collaborazione a termine.
Con il cosiddetto decreto Sostegni del Governo Draghi, entrato in vigore il 23 marzo 2021, il contratto dei navigator, in scadenza il prossimo 30 aprile, è stato prorogato fino alla fine del 2021. Un modo per rinviare, neppure di molto, il dibattito sull’efficacia e sul destino di questa figura, nata insieme alla misura del reddito di cittadinanza (Rdc).
La formazione e l’assunzione dei circa 2700 navigator che avrebbero profilato i percettori del reddito, aiutandoli ad inserirsi in percorsi di formazione o avviamento professionale, si è tradotta in un investimento di 180 milioni di euro. Secondo gli ultimi dati disponibili, su 1.369.779 beneficiari dell’Rdc (non tutti considerati occupabili, come disabili e pensionati), hanno trovato lavoro in 352.068, la maggior parte con contratti a tempo determinato. Ad oggi, molti di loro non lavorano più.
Numeri che vanno letti alla luce della crisi economica legata alla pandemia ancora in corso, ma, secondo i navigator stessi, anche alla particolare fragilità di parte dei propri utenti. «Si tratta di persone che sono rimaste lontane per anni dal mercato del lavoro, alcune non hanno mai lavorato – racconta Valentina Grassi, che continua – c’è chi non ha un titolo di studio, chi è senza patente, talvolta ci troviamo di fronte anche situazioni di abusi e dipendenze».
Difficoltà che ha incontrato anche Sergio Izzo, navigator a Foggia: «Ci sono persone che quando parlo di curriculum europeo non hanno idea di cosa sia. Siamo entrati in un ambito che la politica tutta, destra e sinistra, aveva dimenticato negli ultimi 30 anni». L’ambito è quello dei servizi pubblici per l’impiego.
Nicola Pisciavino lavora a Bergamo, dove si è trovato a fronteggiare un altro problema, il complicato accesso al mondo del digitale: «Può sembrare scontato, ma non tutti hanno a disposizione una stampante o sanno utilizzare la propria casella di posta elettronica». A colpirlo molto è stata la storia di un uomo nato nel 1984 che non ha proseguito gli studi dopo le scuole elementari: «Dove si trovavano le istituzioni quando negli anni Novanta un bambino lasciava la scuola per non tornarci più?», si domanda.
Secondo Mario Giaccone, alcune delle persone che ricevono il reddito di cittadinanza si sentono affibbiare uno stigma, quello che lui chiama lo «stigma della carta gialla». La carta gialla è la tessera su cui mensilmente viene caricato il contributo in denaro e con cui si possono fare acquisti: «Mi hanno detto, ma sai che significa andare a far spesa con la carta gialla? Sai come ti guardano le persone intorno?».
«La riflessione – insiste l’ex docente – va incentrata su questo: esistono nel sistema formativo delle politiche attive gli strumenti per permettere davvero alle persone di acquisire nuove competenze e di riavvicinarsi al mondo del lavoro? Da quanto ho avuto modo di vedere io, sono pochissimi». Almeno, non nel pubblico.
«L’Italia non ha mai creduto nei servizi per fare incontrare domanda e offerta di lavoro, di conseguenza non ci ha mai investito seriamente» commenta il professore emerito di Sociologia del lavoro alla Bicocca di Milano, Emilio Reyneri. «Le ragioni vanno in parte cercate in una certa arretratezza culturale. Le nostre piccole imprese tendono a trovare lavoratori tramite i propri canali personali. In realtà anche loro avrebbero bisogno di consulenza per una ricerca più efficiente».
Il professor Reyneri studia e compara i servizi per l’impiego di diversi Paesi europei e giudica troppo esigue le risorse, anche in termini di personale assunto, che il nostro Paese riserva a questo settore: «Attualmente nei servizi per l’impiego delle Regioni italiane lavorano poco più di 8 mila persone, sono quasi centomila in Germania, 50 mila in Francia, 20 mila in Spagna».
In un momento in cui si torna a parlare di riforma della Pubblica Amministrazione, si può notare come l’età media dei dipendenti pubblici, compresi quelli che lavorano nei cpi, è di 50 anni. Un dato che, in assenza di costante aggiornamento e formazione, può condizionare dinamicità ed efficienza dei centri.
Altra annosa e mai risolta questione è quella della mancanza di comunicazione, in questo ambito, tra livello regionale e livello nazionale: «L’Italia non ha un sistema informatico nazionale per le politiche attive, regioni e province gestiscono in autonomia programmi diversi: questo significa – spiega il sociologo – che, se c’è un posto di lavoro in Umbria, l’ufficio delle Marche non lo sa e non lo verrà a sapere nemmeno il lavoratore che sta cercando occupazione. Questa è una cosa incredibile».
Reyneri ritiene centrale, per l’attività svolta dai centri per l’impiego, stabilire relazioni personali, sia con i lavoratori, sia e soprattutto, con le imprese: «I lavori si trovano andando a fare i commessi nelle aziende, stabilendo contatti. Se i dipendenti dei centri sono così pochi è chiaro che non riescono a farlo».
Ad accettare questa sfida sono le agenzie per il lavoro. Secondo l’Osservatorio Assolavoro Datalab, permettono a 50 mila persone l’anno di raggiungere un’occupazione stabile in azienda. I dati, relativi al 2018, parlano di 800 mila contratti, tra quelli in somministrazione e quelli direttamente in azienda.
«Realizzare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro non è compito facile, servono preparazione e conoscenze». A parlare è Zoltan Daghero, Managing Director di Gi Group Italia, 6° agenzia per il lavoro in Europa. Secondo il manager, i navigator avrebbero dovuto ricevere una formazione più ampia per poter sperare di ottenere risultati simili a quelli delle agenzie private: «Noi assumiamo laureati da diversi percorsi e prima di renderli autonomi nell’interazione tra il candidato e l’azienda passano mediamente due anni».
Un tempo, spiega Daghero, in cui i nuovi assunti vengono formati sulle modalità di conduzione di un colloquio di lavoro, sulla gestione dei clienti, partecipano a presentazioni nelle istituzioni scolastiche, stabiliscono collaborazioni con le università.
Anche il professor Reyneri conferma che si tratta di un compito complesso: «Se da un lato non è facile convincere il disoccupato ad acquisire nuove competenze, o ad abbassare un po’ le sue pretese, dall’altro le aziende vogliono il lavoratore pronto all’uso, qualcuno che il giorno dopo essere assunto sia produttivo al 100%. Spesso non prendono nemmeno in considerazione l’idea di formarlo loro stessi».
Pubblico e privato, qui, restano due mondi separati: diversa è l’entità delle risorse che hanno a disposizione, come pure il tipo di utenza che si trovano a profilare e, in parte, anche l’obiettivo finale: «L’agenzia privata tende a contare il numero dei contratti stipulati, più che la loro durata – riflette Mario Giaccone – mentre al pubblico interessa che una persona esca, se non definitivamente, almeno per un periodo sufficientemente lungo dalla trappola della precarietà». Lo Stato non può non farsi carico dell’inserimento lavorativo e della formazione di chi vive nel suo territorio, perché è l’unico a poter svolgere questo compito in modo disinteressato.
L’operato dei navigator è stato giudicato da tutti, in ogni occasione, dal bar al salotto televisivo. Matteo Renzi ha parlato di sistema «ciofeca» e ha definito i navigator «i forestali del terzo millennio». Il giornalista di Radio 24 Sebastiano Barisoni li ha inseriti nella classifica settimanale degli sprechi di risorse pubbliche del suo programma “Focus Economia”. C’è chi li ha accusati di non aver raggiunto risultati soddisfacenti (pochi rapporti di lavoro, moltissimi a termine), di aver sfruttato la scusa della pandemia per prendere uno stipendio stando a casa, ma anche chi li ha difesi parlando di crisi strutturale dell’occupazione in Italia.
«Ci sono state attribuite falsità che non permettono di lavorare in maniera serena – sbotta Nicola Pisciavino – diventa complicato persino dire che faccio il navigator. Penso che, in un paese serio, dovremmo figurare tra i primi ad essere sentiti in un Parlamento che vuole riformare il reddito di cittadinanza, perché siamo gli unici a sapere cosa funziona, dove metter mano e cosa lasciare com’è».
Precari assunti con un Co.co.co per aiutare una vasta e variegata platea a trovare un lavoro, che si pretende, questo sì, a tempo indeterminato. Una vicenda che ora ha rinviato la sua fine di qualche mese. La speranza è che chi ha acquisito competenze e conoscenze nella giungla dei servizi pubblici per l’impiego possa restare e continuare a dare un contributo. Senza dimenticare come sia l’intero settore ad avere bisogno di una riforma, che tarda ad arrivare.
Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha da poco annunciato l’assunzione, tramite concorso, di 11.600 addetti ai cpi, promettendo «corsie preferenziali per navigator», mentre è previsto un investimento di 22,4 miliardi per il capitolo “Inclusione e Coesione” del Piano nazionale di ripresa, parte del quale sarà dedicato al settore delle politiche attive del lavoro.
Chissà che tra le novità non ci sia anche una collaborazione del pubblico con le agenzie del lavoro private. Nell’obiettivo comune di offrire nuove opportunità a chi si stava rassegnando a non cercare più.