La Pax LettianaIl centrosinistra e la svolta necessaria nel segno dell’esperimento Draghi

Il neo segretario del Pd è abile nell’affondare il bisturi nella carne viva degli organismi dirigenti senza farsi nemici. Però dopo il naufragio del governo Conte e l’addio di Zingaretti, non c’è stato uno straccio di analisi per cambiare linea politica. Domani alle 11 Linkiesta proverà a stimolare i riformisti antipopulisti, compresi quelli del Partito democratico

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In quel fatidico giorno di marzo – raccontano – a un certo punto Nicola Zingaretti ruppe gli indugi: «Chiamo Letta, zitti». Nella sua stanza al Nazareno c’erano Andrea Orlando, Dario Franceschini e Goffredo Bettini, il vertice del vertice del Partito democratico.

Momento storico: tutti erano ben consci della gravità della situazione apertasi con le dimissioni al vetriolo di «Nicola» che avevano determinato un quadro che avevano determinato un quadro che non poteva tollerare troppo trascinamenti.

La soluzione-Letta era venuta in testa a Franceschini come a Zingaretti, e forse ad altri. Il segretario non aveva ancora preso il cellulare in mano che proprio Franceschini prese inaspettatamente la parola: dicendosi pienamente d’accordo, non c’era altra scelta che Letta, e però gli astanti dovevano avere ben chiaro che «Enrico» cambierà tutti i rapporti che ci sono, perché è uno che fa saltare i vecchi schemi e non torna certo per lasciare le cose come stanno.

Il patto di sindacato che ha sorretto la leadership di Zingaretti in questi due anni insomma stava per saltare: e «Dario», come al solito lucidamente, si incaricava di mettere in chiaro che quella telefonata avrebbe cambiato tutto.

Sono trascorse poche settimane e in effetti Franceschini era stato – ma solo dal punto di vista interno – buon profeta: il nuovo leader ha spazzato via la vecchia segreteria e ottenuto il cambio dei due capigruppo senza peraltro punire Base riformista, la corrente più forte nei gruppi parlamentari perché politicamente Simona Malpezzi e Debora Serracchiani non sono lontanissime da Andrea Marcucci e Graziano Delrio, e però l’operazione politica e d’immagine è riuscita.

Orlando e Franceschini sono ministri mentre Goffredo Bettini effettivamente è rimasto fermo al box dei sostenitori di Giuseppe Conte, e di lì lavora per il nuovo amalgama fra Pd e M5s: ma tanto a «Goffredo» non importano le cariche formali quanto l’affascinante avventura della super-intesa Letta-Conte, per la quale lavora con lo spirito di un rivoluzionario che debba porre una pietra decisiva per l’edificazione del socialismo.

Il neosegretario del Pd si sta dunque mostrando molto abile nell’affondare il bisturi nella carne viva degli organismi dirigenti e senza farsi nemici, anzi garantendo quella Pax Lettiana annunciata nel suo discorso d’insediamento davanti alla Assemblea nazionale alternando continuità (vicenda capigruppo, al di là della elezione di due donne, fatto comunque di netta innovazione) a rotture (la nuova segreteria). Il risultato per ora è un cocktail equilibrato nel quale i capicorrente contano meno perché il segretario è più forte del predecessore, non per altro. 

Ciò detto, il problema è il rapporto fra continuità e innovazione nella linea politica. L’enfasi maggiore data dal Nazareno alle iniziative del segretario è stata data all’incontro con Conte (quello, appunto, dell’affascinante avventura) e a quello con le Sardine, come se da lì Letta volesse ripartire per la costruzione di un’alleanza potenzialmente vincente alle elezioni del 2023, ma non essendo chiare due cose: primo, su quali basi politiche si dovrebbe fondare questo Ulivo in sedicesimo; e secondo se la gamba riformista viene considerata alla pari o piuttosto come ruotino di scorta nemmeno tanto indispensabile.

Il fatto che Letta ancora non abbia in agenda (salvo smentite) un incontro con Matteo Renzi è in questo senso significativo.

Ma c’è qualcosa di più sostanzioso. E cioè il fatto che dopo il naufragio della linea o Conte o elezioni, ultimo miglio – diciamo così – dell’esasperato inseguimento dell’avvocato del popolo, e il conseguente abbandono della nave da parte di Zingaretti, non ci sia stato nel partito una straccio di discussione non per recriminare ma per aggiornare l’analisi, come si diceva una volta.

È vero che alla morte di Togliatti Giancarlo Pajetta, famoso per le sue uscite fulminanti, disse: «Oggi si è chiusa una fase e non se ne apre nessun’altra!». Il paradosso suonava bene ma se non valeva per Togliatti, figuriamoci per Zingaretti: e dunque normalmente quando si cambia il leader si cambia anche la linea, o comunque se ne discute.

Invece niente, come se fosse andato tutto okay e il copione prevedesse il grande armistizio fra correnti in stand-by ma sostanzialmente in equilibrio all’ombra della divisione di posti e ruoli e nel segno di una continuità pigra di una linea rivelatasi inefficace. 

Martedì al Senato è stata data comunicazione dello scioglimento del gruppo Maie-Centro democratico – ricordate? Li chiamavano Responsabili – fulgido emblema di quella grottesca fase di caccia ai voti per un Conte ter che non vide mai la luce, il segno plastico della calata del sipario sulla farsa degli ultimi giorni della Pompei di Conte e Bettini. Ebbene, cosa c’è dopo la farsa, Enrico Letta non l’ha detto con chiarezza ma sarà chiamato a farlo, prima o poi. Tutti sanno però che dopo la farsa c’è la tragedia. A meno che…

A meno che qualcuno, da fuori, non proponga una svolta vera nel segno dell’esperimento Draghi e della battaglia contro i due populismi del M5S e di Matteo Salvini. È un’ipotesi di lavoro per i riformisti chiamati da Linkiesta a confrontarsi domani, un’ipotesi che potrebbe svegliare i riformisti antipopulisti che sono tuttora nel Pd e che, malgrado Letta, ancora non ci vedono chiaro e scelgono questa specie di quieto vivere dopo tante tempeste.

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