Il dibattito pubblico di sei esponenti di punta del campo riformista liberale, organizzato da Linkiesta il 2 aprile in diretta Facebook, merita per la sua rilevanza nel presente momento politico alcune considerazioni. Attorno al tavolo erano rappresentati un partito grande, il Partito democratico, con Irene Tinagli e Giorgio Gori, e quattro piccoli partiti, Azione con Carlo Calenda, Più Europa con Emma Bonino (sebbene lei abbia indicato di parlare a titolo personale) Italia Viva con Ivan Scalfarotto e Base con Marco Bentivogli.
L’aspetto della discussione, coordinata da Christian Rocca, più degno di nota credo non sia quello delle opinioni espresse ma il processo stesso con cui la discussione si è svolta. Non è una novità, ma vorrei far arrivare il messaggio ai nostri leader riformisti che essi non danno un segnale riformista dal modo con cui si parlano, ma assomigliano spesso a un déjà-vu dei soliti beauty contest a cui si riduce la rappresentazione televisiva del confronto politico.
È vero, a differenza dei talk show tipo mud wrestling, verbale e non solo, qui c’era rispetto e cortesia. Ottima cosa. Ma anche in questa occasione ciascuno ha esposto il suo racconto politico senza dare il minimo segno di trovare qualcosa da poter modificare/chiarire/migliorare a seguito del racconto dell’altro.
È questo il beauty contest: se permettete sono (un po’) più bello io, punto, fine.
Vediamo le differenze principali nei sei racconti. Primo, le comunali di ottobre a Roma; ci sono due posizioni: Calenda candidato secco del Partito democratico e Calenda candidato del Partito democratico passando per le primarie. Secondo, legge elettorale: tutti per un maggioritario ben calibrato tranne Calenda favorevole al proporzionale. Terzo, forma politica di unità dei riformisti: Bonino per la federazione, Calenda e Bentivogli per la costituente, Scalfarotto wait and see intanto facciamo cose insieme, Tinagli e Gori per il nuovo Ulivo. Quarto e ultimo, ruolo dello stato nell’economia d’impresa: Tinagli, a volte occorre che lo stato entri nel capitale; gli altri, no grazie fuori lo stato dalle aziende.
Vorrei ricordare a chi legge che se dovessi elencare i racconti che invece uniscono questi sei (o cinque) soggetti politici, avrei bisogno di una decina di pagine. E mi sbilancio ad affermare anche che le quattro differenze sopra elencate non sono certo impossibili da ricomporre.
Per questo dico che come ascoltatore di questo dibattito ho avvertito più freddezza nella comunicazione non verbale che in quella verbale. Più distanza nell’approccio al confronto che nei contenuti di esso. Rocca, seguendo la procedura classica, lancia a metà incontro il secondo giro. E questo è il momento illuminante dal quale noi riformisti dovremmo capire che occorre prima di tutto riformare le nostre abitudini.
Nel secondo giro, infatti nessuno dei sei ha raccolto elementi ascoltati dagli altri nel primo per mettere sul tavolo una modifica, un’integrazione, una sintesi del suo racconto con quello dell’altro. Il secondo giro è stato usato, stancamente, per ribadire, precisare, sottolineare. Lo dico con spirito costruttivo: dovrà pur iniziare un giorno o l’altro la fase costituente, de facto prima ancora che de iure, del progetto riformista italiano. Ed è allora che dovremo assistere a uno scatto di attitudine in tutti noi: abbiamo un mare di interessi in comune, e qualche pozzanghera di differenze; non continuiamo a saltarci dentro.