Le due aziende più chiacchierate del momento sono due colossi del mondo farmaceutico come Pfizer e AstraZeneca. Da mesi, l’attenzione pubblica si concentra soprattutto su di loro e sui loro vaccini. È curioso però che proprio in queste settimane i vertici di entrambe le società abbiano deciso di cambiare qualcosa.
Nel caso di AstraZeneca il cambiamento è più contenuto, molto parziale. La multinazionale anglo-svedese, pochi giorni fa, ha deciso di dare un nuovo nome al suo vaccino, Vaxzevria, che in realtà un nome ancora non l’aveva mai avuto: trovare un nome per un farmaco non è necessariamente l’operazione più semplice del mondo – tra valutazioni che devono tener conto di somiglianze con altri farmaci e dei nomi delle sostanze attive che lo compongono e che non deve essere ingannevole rispetto alla composizione e così via.
È logico pensare che nella corsa a cercare la formula giusta, a produrre il farmaco e infine a distribuirlo, l’azienda si sia concentrata solo in un secondo momento sul nome.
Nel caso di Pfizer, invece, la scelta è stata ancora più netta. Lo scorso gennaio, l’azienda ha deciso per un vero e proprio rebranding settant’anni dopo l’ultima volta: la pillola azzurra che inglobava il nome “Pfizer” è stata sostituita da un’elica simile a quella del Dna, posta alla sinistra del nome. E l’operazione è stata lanciata con il messaggio «Science Will Win», che in questo particolare momento suona tanto come se dicesse: «Se vuoi salvare gli esseri umani dalla malattia, chiedi alla scienza».
Il rebranding era in cantiere da un po’, ma l’azienda (probabilmente consapevole della grande attenzione che avrebbe avuto su di sé) ha scelto di cambiare veste proprio a gennaio. «Con il crescente impegno di Pfizer per una scienza rivoluzionaria, per noi è arrivato il momento di aggiornare la nostra identità», ha detto l’amministratore delegato Albert Bourla.
Sally Susman, chief corporate affairs officer di Pfizer ha detto al Wall Street Journal che «è un momento particolare per l’azienda e per il settore e quando si fa un cambiamento d’immagine è importante farlo da una posizione di forza».
Le scelte di Pfizer e AstraZeneca dicono molto del processo che si nasconde dietro un’operazione di rebranding per un’azienda. «È vero che il caso di AstraZeneca è particolare, ma questi due cambiamenti aiutano a distinguere due grandi categorie di rebranding, una più radicale e una più soft», dice a Linkiesta Sandro Castaldo, professore di Trade marketing & Channel management alla Bocconi.
«I rebranding più radicali», dice Castaldo, «di solito si fanno quando c’è un’acquisizione di un marchio. Gli esempi sono quelli delle grandi catene di supermercati o delle compagnie di assicurazione, o anche dei fondi d’investimento. Operazioni che aiutano a creare economie di scala per marketing e comunicazione: è molto più semplice investire in un solo brand».
In altri casi un’azienda decide di cambiare la sua immagine relativamente a un singolo prodotto o a una linea o per riposizionarsi su un nuovo segmento di mercato. Nel settore dolciario lo ha fatto ormai diversi anni fa un’azienda storica come Galbusera, che da tempo ha incorporato nel suo marchio il tema della salute, da quella del consumatore a quella dell’ambiente.
Anche in questo caso, il tempismo è stato fondamentale: «Hanno intuito in anticipo che il mercato del frollino tradizionale era sempre più affollato, mentre quello bio era in crescita. Il fatto di arrivare prima permette a un’azienda di posizionarsi meglio: è il cosiddetto vantaggio di prima mossa che ti rende il riferimento in quel settore», spiega Castaldo.
In ogni manuale di marketing c’è scritto che una grande azienda fa rebranding per raggiungere nuovi consumatori, riposizionarsi, allontanare il proprio marchio dalla concorrenza o tracciare una linea di discontinuità con il passato.
Sono motivazioni che si possono ritrovare, in parte, anche nell’operazione di rebranding messa in atto da Tim nel 2016. Anche una società di telecomunicazioni solida e con un’identità ben definita ha bisogno di aggiornarsi: «L’obiettivo era semplificare l’architettura del brand e l’esperienza del cliente. Inoltre si voleva sia ottimizzare gli investimenti media sia valorizzare il potenziale della convergenza in uno scenario di mercato che vedeva sempre di più la crescita del mobile e dei servizi OTT», dice a Linkiesta Sandra Aitala, responsabile communication & brand development che opera all’interno della direzione Brand Strategy, Media & Multimedia Entertainment di Tim guidata da Luca Josi.
«La sfida», prosegue Aitala, «era quella di riposizionare il brand, conservando le caratteristiche distintive e l’affidabilità di Telecom Italia e valorizzando il portato di modernità di Tim. Alle nostre spalle il percorso di altri grandi operatori Tlc europei: Deutsche Telekom (T Home, rete fissa, e T Mobile entrambe sotto il brand umbrella T), France Télécom con Orange (un solo brand per fisso e mobile) e Telefónica con Movistar».
Ovviamente un’operazione di questo tipo nasconde dei rischi, anche per un colosso come Tim: «In primo luogo il disorientamento della clientela, particolarmente alto nel target di età più avanzata, la perdita di riconoscibilità e lo spaesamento del pubblico interno. Poi la sfida di indirizzare il processo di rebranding in pochi mesi su un numero enorme di touch point e su obiettivi molto eterogenei tra loro; infine, la delicata integrazione tra diversi territori di brand. Tutte queste criticità sono però state risolte con successo e i risultati sono stati molto positivi», dice Aitala.
In alcuni casi il rebranding può essere una strategia per tagliare i ponti con un passato negativo, con una brutta immagine. Lo ha fatto ad esempio nell’aprile del 2017 la compagnia aerea United Airlines, dopo che un passeggero di origine asiatica era stato trascinato con la forza fuori da un loro aereo prima del decollo dalle forze dell’ordine. Il video di quel momento divenne virale e la United scelse di cambiare look poco dopo.
Ma il miglior esempio in materia lo rappresenta probabilmente McDonald’s. Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila la compagnia di fast food divenne il simbolo del junk food, del cibo spazzatura, e il nome dell’azienda sinonimo di uno stile di vita poco salutare.
Da lì nacque l’idea di abbattere e ricostruire da zero l’immagine di McDonald’s, facendo soprattutto una scelta cromatica radicale: lo storico rosso che accompagna il logo è stato sostituito in più parti – soprattutto sulle tovagliette, sulle insegne all’esterno dei locali e in altri punti strategici – con il verde, che invece è associato a un cibo salutare, sano, nutriente.
Poche settimane fa ha fatto una scelta simile il competitor Burger King, al primo rebranding completo dopo oltre vent’anni. L’idea stavolta nasce dalla necessità di coniugare lo stile di vita sano – che magari si traduce solo nella rimozione dalle voci del menu di coloranti, aromi e conservanti e altre sostanze artificiali – con un progetto digital-first, che ridisegna il logo e tutte le immagini del brand per renderle più spendibili sulle diverse piattaforme digitali.
Quando nel 2017 lo fece Asics, il marchio giapponese di articoli sportivi, il rebranding fu una scelta di mercato. Tutto di quell’operazione doveva servire a intercettare una nuova categoria di consumatori: dalla nuova tavolozza di colori – rosa, giallo, verde, viola – del logo a un font più moderno e semplice.
«Volevamo attrarre un pubblico più giovane, ma anche trasmettere la gioia di praticare sport. Altri marchi tendono a essere piuttosto oscuri e intensi, trasmettono un senso di competizione e vittoria. Questo è un antidoto, trasmette una sensazione di divertimento», ha detto Chris Braden, direttore creativo di Bruce Mau Design, lo studio che ha curato l’operazione.
La strategia di Asics va contro il concetto di attenzione al dettaglio tecnologico e ingegneristico del prodotto, e guarda di più a una platea più ampia, al segmento lifestyle, al concetto di mens sana in corpore sano.
A proposito di sport, il rebranding riguarda anche i club professionistici. Negli ultimi anni è capitato più di una volta anche con le società della Serie A di calcio. Anche se, come spiega il professor Castaldo, «nel caso di una squadra di calcio è un concetto diverso di rebranding, in quanto non è legato esclusivamente alla vendita di un prodotto fisico, ma piuttosto al legame con i tifosi, con gli appassionati di calcio in generale e con l’idea di attrarre un pubblico diverso».
A gennaio 2017 la Juventus aveva svelato il suo nuovo logo. Lo aveva definito «un segno forte, essenziale e inconfondibile». Il nuovo simbolo della Juventus si è evoluto in chiave moderna secondo una linea di semplificazione, con una rinuncia ai segni grafici tradizionali e al simbolo della città di Torino.
«È un logo sviluppato con i principi con cui si costruisce un’icona globale per questi tempi: capace cioè di esprimersi con forza in qualsiasi contesto fisico o digitale. Soprattutto, è un logo che si lascia con coraggio alle spalle i conformismi degli stemmi calcistici», avevano spiegato dal club bianconero.
Ha fatto lo stesso il mese scorso l’Inter, che ha presentato al mondo il suo nuovo brand “Inter Milano”, con il logo “IM”, che gioca sia sulla contrazione inglese “I’m” sia sulla forza della città, che rappresenta di per sé un brand riconoscibile e spendibile in tutto il mondo.
Anche in questo caso il messaggio della società è stato chiaro, con la volontà di esplorare nuove vie di mercato, cercare di stabilire un contatto con nuove fasce di spettatori e arrivare in ogni angolo del globo. Che dopotutto è, proprio come nel caso dei rivali di sempre della Juventus, una mossa di mercato indispensabile per qualsiasi club di calcio che vuole raggiungere l’eccellenza.